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Note psicoanalitiche: beatitudine e poverta' in spirito

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Note psicoanalitiche: beatitudine e poverta' in spirito

L'articolo "Note psicoanalitiche: beatitudine e poverta' in spirito" é tratto dalla rubrica Spazio Psicoanalisi.

Nell'articolo si parla di:

  • Brevi considerazioni psicoanalitiche sulla "beatidudine" della poverta' in spirito
  • Nota conclusiva
  • Bibliografia
Psico-Pratika:
Numero 35 Anno 2008

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'Note psicoanalitiche: beatitudine e poverta' in spirito' (Pag 3)

A cura di: Romano Biancoli

Leggi la seconda parte dell'Articolo: L'Idea di Felicita' tra Simbolo e Idolo (II)

Brevi considerazioni psicoanalitiche sulla "beatidudine" della poverta' in spirito

Con il massimo rispetto propongo alcune considerazioni psicoanalitiche riguardo a uno dei temi piu' alti della spiritualita' occidentale.
Il mio argomento parte dal Discorso della Montagna di Gesu'.
Esso si apre, secondo il Vangelo di Matteo (5, 3-12) e di Luca (6, 20-26), con l'enunciazione di otto beatitudini in Matteo e quattro in Luca.
Ogni enunciazione comincia con la parola "Beati".
Beati i poveri, beati gli afflitti, beati i miti, ecc.
Mi limitero' all'esame della prima beatitudine: "Beati i poveri in spirito, perche' di essi e' il regno dei cieli".
La mia riflessione e' basata sulla lettura di questa beatitudine offerta dal Sermone tedesco di Meister Eckhart (1995, pp. 130-138) intitolato appunto "Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum" (Beati i poveri in spirito perche' di essi e' il regno dei cieli).

Eckhart afferma che "e' un uomo povero quello che niente vuole, niente sa, niente ha".
La poverta' materiale ed esteriore non e' rilevante, quel che importa e' la poverta' interiore, data dal non volere nulla, non desiderare nulla, nemmeno i beni spirituali di cui ci si compiaccia e che vadano a blandire il proprio Ego.
Gli asceti, i penitenti sbagliano e non sono poveri, perche' "si tengono ben aggrappati al proprio ego personale, che ritengono importante ... Queste persone sono chiamate sante a motivo dell'apparenza esteriore, ma interiormente sono asini" (Ibid., p. 131).

I passi del sermone che spiegano cosa sia la poverta' data dal non sapere niente non inneggiano all'ignoranza, del resto Eckhart era un uomo dotto, ma propongono il rifiuto della conoscenza in quanto possesso, non in quanto atto del conoscere, come suggerisce l'interpretazione di Fromm (1976, p. 315).

Il non avere nulla e' ancora piu' radicale: non solo non avere un Ego, non solo non sapere nulla, ma anche non avere Dio. "... prego Dio che mi liberi da Dio" (Eckhart, 1985, p. 136).
La beatitudine e' in un totale vuoto dell'avere.

Meister Eckhart, che si esprime spesso in un linguaggio simbolico e metaforico, e' uno degli autori che piu' hanno ispirato Fromm nella formulazione delle due categorie "modalita' dell'avere" e "modalita' dell'essere".
La modalita' dell'avere si puo' compendiare nella formula "io sono cio' che ho" (Fromm, 1976, p. 325).
Se io sono cio' che ho, sono una cosa.
Fromm distingue tra "Ego" e "Io" (1968).
L'Ego e' la reificazione socialmente connotata della nostra identita', e' una cosa, un possesso, "the mask we each wear", "a dead image" (Fromm, 1976, p. 332).
In quanto cosa, l'Ego e' descrivibile a parole, mentre e' assai difficile descrivere l'Io, che puo' esistere in quanto esperienza ma non in quanto possesso.
Possedere l'Io e' illusorio, poiche' il fatto stesso di definirlo, circoscriverlo, squadrarlo in una oggettivazione e' operazione che lo aliena in un Ego (Biancoli, 2006).
L'Io emerge nella modalita' dell'essere come sperimentabile e tuttavia inafferrabile (Ibid.).

Dunque, l'essere umano beato perche' povero abbandona la modalita' dell'avere.
In se' non significa che abbandoni le cose ma che tolga da esse quell'accento affettivo che le rendono idoli.
Eckhart non era un asceta che stava chiuso in una cella a digiunare, era un autorevole membro del clero renano che dirigeva monasteri e insegnava nelle universita', e si permetteva, come si puo' supporre, un modo di vivere agiato se pur sobrio.
Si tratta di quel che Fromm (1976, p. 331) chiama "avere esistenziale": l'essere umano per vivere ricorre a vari beni materiali e spirituali che soddisfino i suoi bisogni.
L'"avere caratterologico" invece si esprime nella passione dell'appropriarsi, del detenere e del conservare.
Questo e' un punto importante della questione, perche' e' facile travisare sul non avere.
Lasciare le cose esterne puo' essere molto difficile, ma ancor piu' difficile e' spegnere nell'animo l'eco delle cose lasciate, il senso della loro mancanza o l'orgoglio e il compiacimento di essere riusciti a lasciarle.
Si tratta di sottili tributi interiori all'oggetto, una fine e spesso inconscia idolatria.

L'argomento che sto svolgendo punta al tema del narcisismo come ostacolo alla poverta' in spirito e quindi alla beatitudine.
E' un fatto che la descrizione di Fromm dell'avere come modalita' esistenziale carica di passioni quasi coincide con la sua presentazione fenomenologico-esperienziale del narcisismo.

Secondo Fromm (1973, p. 180), il narcisismo induce la persona a sperimentare gli accenti affettivi in modo tale da sentire come pienamente reali solo le cose o gli aspetti che le appartengono o le attengono.
Il proprio corpo, la propria intelligenza, la propria bravura, i propri bisogni, la propria automobile, la propria casa, ecc., ma anche i propri figli, e tutti coloro che ritiene di possedere, esistono con una carica e un colore affettivi che mancano nella percezione che la persona ha di tutto il resto.
Cio' che non la riguarda, non le attiene, non e' suo, le appare come privo di peso, di tono.
Sa che esiste, ma lo sa solo intellettualmente, senza calore, senza interesse, sa si' che e' reale, ma sbiadito, e stenta a prenderlo in considerazione e a tenerlo presente.

Esplicitando Eckhart e Fromm, il narcisismo si pone come autoidolatria ed ostacola la beatitudine intesa come felicita' non alienata, e a maggior ragione se consideriamo anche la "rabbia" provocata dalle "ferite narcisistiche" (Kohut, 1972).
Ma c'e' di piu'.
I penitenti aggrappati al loro Ego, "santi" per coloro che badano alle apparenze, "asini" per Eckhart, si spingono talora fino al dolore fisico autoprovocato.
Ritorna cosi' il tema del corpo, della gia' menzionata ricerca di Van der Kolk sulla sofferenza retribuita da oppiacei interni: ben lontani dalla beatitudine, costoro rischiano di sperimentare un piacere associato al dolore, di essere masochisti.

In fondo, la psicoanalisi conferma il pensiero di Meister Eckhart, cosi' radicalmente antidolatrico: la felicita' possibile e non alienata viene dal ridurre il narcisismo, la distruttivita' della rabbia narcisistica e il sadomasochismo, cioe' essa corrisponde alla salute mentale, nella quale troviamo, oltre alla capacita' di gioire e di amare, quella di apprezzare il piacere e di sopportare il dolore riferendo queste due esperienze non l'una all'altra, ma a distinti ed appropriati contesti.

Nota conclusiva

La vita del simbolo e la condizione felice stanno insieme.
Entrambe implicano il rispetto per la totalita' dell'essere umano e l'unita' funzionale di corpo e psiche.
Questo aspetto Fromm (1959, p. 5) lo esprime molto efficacemente:

"Insieme ad alcune altre persone io credo che pensieri che non sono dissociati sono pensieri non solo del nostro cervello, ma pensieri del nostro corpo.
Noi pensiamo con i nostri muscoli, noi pensiamo con ogni cosa nel nostro corpo, e se noi non pensiamo col nostro corpo, se il nostro corpo non partecipa ad un pensiero, allora questo e' gia' un pensiero dissociato."

Psiche e corpo affidano ai processi simbolici il loro compenetrarsi nei nascondimenti e nelle manifestazioni.
Al fondo, se l'inconscio nella sua totalita', come afferma Groddeck (1917), non e' ne' psiche ne' corpo ma vive e funziona attraverso di essi e nella loro interrelazione, allora ogni interruzione dei processi simbolici e' causa di infelicita'.
I simboli inceppati, i simboli uccisi sono una menomazione, una mutilazione dell'essere umano, una delle ragioni per cui ci si vota a un idolo.

Le idee di felicita' e infelicita' declinate nella logica dei simboli sfuggono alla comprensione del senso comune e anche a quella della logica formale.
Collegare in modo meccanico la felicita' al piacere e l'infelicita' al dolore non e' solo riduttivo, e' anche fuorviante e sbagliato.
Dobbiamo andare oltre le parole e le immagini.
Se esse significano solo se stesse, sono idoli e vanno abbandonate, come predica Meister Eckhart.
Se rimandano ad altro, sono simboli e indicano un cammino che la psicoanalisi puo' percorrere, attraversando tanto il dolore e la tristezza quanto il piacere e la gioia.
In questa prospettiva, il lavoro analitico pone a contatto con l'interezza in divenire dell'essere umano, che e' la sua possibile felicita' non alienata.

Bibliografia
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