CINEMA E PSICOTERAPIA:
COME COSTRUIRE UNA "REALTA' INVENTATA"
Un "primo piano" sul concetto di "realta'"
"Penso che ogni immagine cominci ad esistere solo quando qualcuno la sta guardando" (Wim Wenders).
Basterebbero queste parole del grande regista tedesco per esemplificare con una evidenza dirompente il legame tra cinema e psicologia.
L'immagine filmica lavora sull'apparenza, sulla cosiddetta impressione-illusione di realta', sulla visione di qualcosa che non e'
il mondo, ma sembra il mondo.
E' un'apparenza di mondo che si rivela piuttosto come mondo dell'apparenza, o copia (differente) del mondo dell'apparenza.
La forte somiglianza con il mondo esterno, che poi si rivela un'illusione, l'apparenza di vero, che si rivela non vero, sono la struttura
stessa del cinema e... non solo.
Di tanti "meccanismi" della mente, di tanti comportamenti piu' o meno "devianti" da un'ipotetica "normalita'",
quello che sembra rispecchiare pienamente la profonda assonanza tra queste due "realta' fittizie" e' la cosiddetta "profezia che
si autoavvera" ed il potere della logica (detta della "credenza") che ne e' alla base.
Perche'? Faccio un esempio, ma non del mondo "reale".
Essendo un'appassionata di cinema, mi viene in mente l'indimenticabile protagonista del film Matrix:
Neo e' davvero l'Eletto o in qualche modo lo diventa perche' si convince di esserlo?
Sarebbe stato destinato comunque a diventare il Prescelto perche' cosi' "Qualcuno" o "Qualcosa" ha deciso per lui o e' lui che decide
di diventare Colui che salvera' il mondo?
Domande, queste, riconducibili ad un unico, profondo, se vogliamo "arcaico", quesito:
quanto le nostre "credenze" condizionano la nostra vita?
A me piace rispondere: "tanto!"
Riporto di seguito il passo relativo al primo dialogo tra Morpheus e Neo, al momento del loro primo incontro:
- Morpheus: immagino che in questo momento ti sentirai un po' come Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio
- Neo: l'esempio calza
- Morpheus: lo leggo nei tuoi occhi: hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perche' aspetta di risvegliarsi.
E curiosamente non sei lontano dalla verita'.
Tu credi nel destino, Neo?
- Neo: no.
- Morpheus: perche' no?
- Neo: perche' non mi piace l'idea di non poter gestire la mia vita.
Credere di poter diventare qualcuno o sognare di poter fare una certa cosa, pero', non significa automaticamente riuscirci:
se domattina mi svegliassi credendo di essere Wonderwoman, non sarebbe "funzionale", oltre che salutare, per me, provare a volteggiare
nel cielo con quel bel costumino a stelle!
Scendiamo con i "piedi per terra", che non vuole essere una rinuncia al "sognare in grande" ma un invito al "saper sognare".
"Saper sognare"... sembra quasi un ossimoro!
Da che mondo e' mondo il sogno e' libero... almeno cosi sembrerebbe... eppure anche il nostro Immaginario non e' cosi libero come
amiamo credere, libero da condizionamenti mediatici, dalle aspettative di cui gli altri ci investono, dalle mode del momento, dalla brama
del successo, dal desiderio di riuscire e il timore di osare...
Cosa accadrebbe se ci rendessimo conto di non essere all'altezza delle nostre (o altrui?) aspettative?
Cosa accadrebbe se il sogno di tutta una vita andasse in frantumi?
Cosa accadrebbe se tutto cio' in cui abbiamo sempre creduto svanisse nel nulla?
L'uomo ("reale" e quello "non reale" dei film, dei fumetti e prima ancora delle favole) vive di credenze, che altro non
sono che profonde convinzioni o speranze che tracciano le linee guida del percorso della sua vita, proprio come i sassolini lasciati da
Pollicino.
In fondo, in ogni credenza, l'importante e' riuscire a ritrovare sempre la via sicura, quella che riporta a casa, e non rischiare, cosi,
di cambiare direzione!
Proviamo ad immaginare:
cosa sarebbe accaduto a Biancaneve se, dopo un anno di matrimonio con il Principe Azzurro, si fosse accorta che il suo maritino era
si "principe", ma davvero poco "azzurro"?
E che dire della Bella Addormentata nel Bosco che ha atteso ben sedici lunghi anni l'incontro con il suo prode cavaliere?
Una delusione da quest'uomo la porterebbe nella migliore delle ipotesi al suicidio!
Insomma, a parte il fatto che non tutte le "addormentate" sono belle e non tutti i "principi" sono impavidi e nobili d'animo, vivere
per sempre felici e contenti non e' il finale impossibile di una bella favola, ma l'obiettivo concreto che ciascuno di noi (streghe e gnomi
inclusi) puo' provare a perseguire...
Come?!
Come terapeuta strategica non chiedo ai miei pazienti di scegliere tra una pillola rossa e una blu, perche', a differenza di
Morpheus, non ho nessuna Verita' da offrire, ma di non dimenticare che "la verita' non e' cio' che scopriamo, ma cio' che creiamo"
(A. De Saint-Exupéry).
Ma vediamo piu' da vicino le analogie strutturali della cinematografia e della psicoterapia con gli aspetti piu' rilevanti del simulacro.
Secondo il dizionario, "simulacro" significa "parvenza, immagine lontana dal vero", ed e' connesso al "simulare", che
e' "fingere, far parere qualcosa che in realta' non c'e'".
Innanzitutto, l'immagine filmica e' un'impressione o illusione di realta', una rappresentazione illusiva del mondo in una condizione di
assenza e di negazione del mondo stesso.
Lo stesso vale per una seduta psicoterapeutica: le parole del paziente si riferiscono ad una realta' (quella passata, presente e futura)
ipotetica, intangibile, sia perche' gli episodi raccontati dal paziente potrebbero non essere corrispondenti ad una realta' "oggettiva"
e, quindi, essere frutto di una sua rielaborazione travisata dei fatti, sia perche' il terapeuta si serve di "benefici imbrogli" per
raggirare le resistenze del paziente, con l'obiettivo di guidare la persona nel processo di costruzione di una "realta' inventata", che,
tuttavia, produce effetti concreti.
Il film e' un "falso", elaborato per ingannare lo spettatore, che nasconde la propria struttura (quella impressa su un fotogramma e
stampata su una pellicola), per proporne un'altra totalmente diversa.
L'immagine filmica, come scrive Paolo Bertetto (1), "e' proprio concepita, prodotta, realizzata per determinare un effetto di
illusione, e' costruita per produrre il falso, e' radicata nell'apparenza".
E' un'immagine che maschera la sua differenza strutturale dal mondo, e si maschera da realta'.
Il regista, cosi come il terapeuta, non si pone come rivelatore di una "realta' profonda", non c'e' qualcosa da smascherare, ma
solo "visioni-altre" da aggiungere.
Il concetto di illusivita' si lega strettamente a quello della credenza: il mio autoinganno e' il frutto di quello che io ritengo
reale.
Mi viene in mente la credenza, tipicamente paranoica, di chi, convinto che gli altri ce l'abbiano con lui e stiano complottando qualcosa
contro di lui, assume un atteggiamento minaccioso, a volte aggressivo nei confronti degli altri, o finisce col chiudersi sempre di piu'
in se stesso, isolandosi.
In questo modo, proprio in virtu' della sua credenza, gli altri tenderanno ad evitarlo, confermando, cosi, la convinzione paranoica in un
circolo vizioso.
Gli effetti prodotti da una credenza sono, quindi, effetti reali, che vanno ad alimentare la credenza stessa.
Significativa, a tal proposito, ritornando all'ambito cinematografico, la scena del film "Schatten" (2), in cui il marito
geloso (che e' convinto che la moglie lo tradisca) percepisce in maniera alterata le immagini della moglie e di alcuni pretendenti che la
guardano: i riflessi nel vetro e gli effetti ottici provocati da una tenda trasparente delineano contatti di seduzione che non hanno
effettivamente luogo.
E' il caso di dire: "non e' come sembra!".
"Simulare significa imitare, rappresentare, riprodurre; ma significa anche fingere, ingannare, mentire" (Bettetini) (3).
La simulazione e' quindi una pratica di produzione programmata di qualcosa, realizzata attraverso una procedura funzionale.
La simulazione non e' un atto neutro, non e' una pura rappresentazione, ma implica la consapevolezza e la deliberazione di compiere un atto
di finzione.
Esattamente come in terapia.
Il terapeuta e' di fatto un abile manipolatore.
Questa semplice "verita'" non e' un'eresia, ma una inevitabile conseguenza derivante dal fatto che qualsiasi osservatore non puo'
esimersi dalla responsabilita' che ha nel modificare l'oggetto dell'osservazione.
In discussione sono la misura e la forma della manipolazione, non la manipolazione stessa.
Fin dal primo incontro con una persona possiamo influenzarla positivamente e creare un cambiamento (crolla il concetto di diagnosi prima e
intervento poi).
Non esiste la possibilita' di non influenzare quello che si vede e su cui si interviene.
Anche nel cinema il mondo deve essere manipolato e simulato.
L'ultracitata affermazione di Rossellini "le cose sono li. Perche' manipolarle?" riflette un'ingenuita' e una superficialita' di fondo.
Nella predisposizione e nella realizzazione di un evento, anzi di una apparente forma di evento, simile ai fenomeni del mondo, la messa in
scena cinematografica produce qualcosa che, insieme, non e' vero, ed e' qualcosa di piu' complicato di un falso.
Come scrive il filosofo Schefer "il reale dell'immagine e' l'effetto che produce".
La terapia strategica e' di stampo pragmatico, si basa sugli effetti, non sulle cause: un problema si puo' definire solo grazie alla sua
soluzione, se ha funzionato.
A differenza delle tradizionali teorie psicologiche e psichiatriche, un terapeuta strategico non utilizza nessuna teoria sulla "natura
umana" o "patologia" psichica.
In quest'ottica ci si interessa piuttosto della "funzionalita'" o "disfunzionalita'" del comportamento delle persone e del loro
modo di rapportarsi con la propria realta'.
E questo e' il motivo per cui, parafrasando il best-seller di Piergiorgio Odifreddi, "non possiamo essere psicoanalisti!!"
Dare etichette non solo e' inutile, ma puo' essere fortemente controproducente.
Il rischio e' quello di costruire una patologia, laddove non esiste, qualora il terapeuta o lo stesso paziente, in una sorta di profezia
che si autoavvera, finisca col renderla reale.
Le parole hanno un forte potere evocativo: le rappresentazioni mentali che ne derivano possono produrre delle "realta' inventate"
che hanno la stessa forza delle "realta' vere".
Se qualcuno con tanto di camice bianco, spessi occhialetti di celluloide sul naso, espressione sicura di chi la sa lunga, e capelli
brizzolati, che lo rendono non un adulto attempato, ma un professionista di certa esperienza, mi da' la sentenza: "disturbo paranoide
di personalita'", nella migliore delle ipotesi penserei: "forse c'e' qualcosa che non va in me!".
Purtroppo raramente una persona che soffre e chiede aiuto all'"esperto" ha la forza mentale di non credere all'etichetta e pochi
sono quelli che ironicamente pensano: "il pazzo sara' lui!".
L'aspetto paradossale consiste nel fatto che il paziente in questione, una volta stigmatizzato, fara' di tutto per rendere vera la
profezia: si comportera' da paranoico!
Per la serie: "se non lo sei, ci diventi!".
Di nuovo: e' l'interpretazione (di un evento, di un episodio, di una immagine, di una scena...) che mi porta a credere qualcosa, ma e'
altrettanto vero che le mie credenze condizionano le mie interpretazioni in un circolo vizioso.
Dal momento che le credenze sono "dure a morire", per il terapeuta risulta vantaggioso intervenire sulle interpretazioni,
offrendo "visioni" differenti di una stessa "immagine", creando nuovi scenari, spostando, quasi come se potesse servirsi di
una videocamera, il focus dell'attenzione su un particolare piuttosto che su un altro, mettendo in primo piano un dettaglio, altrimenti
trascurato, o facendo una ripresa aerea dell'intero "paesaggio", offrendo cosi una veduta d'insieme.
Lo sguardo del regista rappresenta la direzione interpretativa lungo cui muoversi per comprendere il senso del testo filmico.
Wim Wenders, regista tedesco molto interessato alle riflessioni metalinguistiche sul cinema, sostiene nel suo "Lisbon Story"
che senza quello sguardo lo spettatore non vedrebbe nulla.
La scelta dell'inquadratura, dell'angolazione, della luce, e' gia' una scelta di direzione interpretativa.
Dunque non attraverso i contenuti, ma attraverso le scelte formali possono rientrare nell'opera cinematografica le valutazioni dell'autore.
Il cinema, certo, "significa" principalmente attraverso le immagini, ma la sua specificita' non risiede in questo modo di significare,
poiche' altri linguaggi non verbali utilizzano le immagini (linguaggio fotografico, linguaggio pittorico).
L'essenza del cinema non si trova nel singolo fotogramma; se cosi fosse, non ci sarebbe alcuna specificita' filmica.
Non si tratta dell'uso delle immagini, presenti in tutte le arti figurative.
Non si tratta neanche del movimento della significanza (intesa come "articolazione del senso"), presente in ogni attivita'
"infunzionale", in ogni attivita' umana, in ogni "opera" nel senso lévinasiano (4).
Pensiamo ad un romanzo: la scrittura non indica solo cio' che viene scritto; la parola umana e' gia' scrittura per l'eccedenza del
"dire" sul "detto" (Lévinas), per il suo significare piu' di cio' che dice.
La parola e' gia' scrittura prima ancora di essere scritta.
J. Jaynes (5) sottolinea che, se riuscissimo a pervenire ad un linguaggio che avesse il potere di esprimere esattamente qualsiasi
cosa, la metafora non avrebbe motivo di esistere.
Grazie alla metafora, infatti, il linguaggio puo' estendersi a coprire una serie infinita di circostanze.
Qual e', allora, quell'elemento propriamente cinematografico che fa del cinema la settima arte? Il montaggio? Non esattamente.
La specificita' filmica risiede nella possibilita' di collocare le immagini in una successione spazio-temporale che produce senso.
Non solo. Bettetini (6) scrive che il film puo' essere fruito solo come manifestazione temporale in atto; il film produce tempo
concreto, oltre che senso, inconcepibile senza il movimento, attraverso cui diventa quantita'.
Sulla stessa scia di pensiero, Morin (7) afferma: "la congiunzione della "realta'" e dell'"apparenza" delle forme implica la
sensazione della vita concreta e la percezione della realta' oggettiva".
Musatti (8) sostiene che il cinema, in misura maggiore rispetto ad un romanzo e ad uno spettacolo teatrale, conferisce allo
spettatore la sensazione di realta' delle immagini percepite. Secondo l'autore, la realta' delle vicende di un romanzo e', per il lettore,
una realta' immaginata (dallo scrittore e che il lettore stesso puo' immaginare).
A teatro, invece, lo spettatore percepisce una porzione di spazio reale, il palcoscenico, dove, attraverso le scenografie, i costumi, i
gesti e i discorsi degli attori, si ottiene la rappresentazione di una realta' fittizia.
Sul palcoscenico del teatro, gli attori sono persone reali, che recitano la loro parte ma che non perdono, per lo spettatore, la loro
individualita'.
Essi potrebbero in qualsiasi momento scendere dal palcoscenico e unirsi al pubblico in sala.
Per questo motivo, secondo Musatti, nell'attore di teatro rimane molto visibile la sua "doppia personalita'", mentre al cinema l'attore
scompare quasi del tutto nel personaggio.
Anche Metz (9) ha rimarcato questa differenza: "la finzione teatrale e' maggiormente avvertita... mentre la finzione cinematografica
e' piuttosto sentita come la presenza quasi reale di questo irreale".
Questo paradosso, per cui la maggior finzione e' avvertita come la maggior verita', non era sfuggita a Galileo Galilei, che nel 1612 in
una lettera al suo amico Ludovico Cardi, detto il Cigoli, a proposito della preminenza della pittura sulla scultura cosi scrive:
"Perciocche' quanto piu' i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto piu' l'imitazione e' meravigliosa"
(10).
Ciascuno di noi, come "personaggio" della propria vita, non si pone come "decodificatore" di una testualita' che si presenta
come "data", bensi come interprete, lettore, capace di riempire di significato i punti ambigui, ma anche di intraprendere cammini
autonomi rispetto al senso vero, ammesso che esista.
Come non pensare a Dick? "La realta' e', forse, non tanto qualcosa che si percepisce, bensi qualcosa che si costruisce.
Voi la create piu' rapidamente di quanto essa crei voi" (11).
Esemplare la versione cinematografica del racconto "Impostor" (12).
Spence Olham e' un funzionario di alto rango che segue uno dei progetti di ricerca del Laboratorio Westinghouse per difendere il pianeta
Terra dagli attacchi degli Invasori Spaziali.
Una delle navicelle degli Invasori, pero', e' riuscita a penetrare nella bolla di protezione e a scaricare una spia sotto forma di un robot
umanoide.
Il robot ha il compito di distruggere un particolare essere umano (Olham appunto) e prenderne il posto.
Il robot era stato previamente costruito per somigliare a quella persona, al punto che nessuno, moglie inclusa, si sarebbe potuto accorgere
della differenza.
Il robot sarebbe vissuto al posto della persona che aveva ucciso, svolgendo le sue solite attivita', il suo lavoro, la sua vita sociale.
L'aspetto davvero originale sta proprio nel fatto che il robot non sa di non essere il vero Spence Olham: si comporta "come se" fosse
lui, crede a tal punto in quello che e', da non poter accettare l'idea di essere qualcun altro, in questo caso, qualcos'altro; proprio come
il piccolo protagonista del film A.I. di Spielberg (13): un bambino-robot che crede a tal punto di essere "umano" che
riuscira', alla fine del film, a diventarlo davvero! Esattamente come Pinocchio!
Dick ci ha lasciato in eredita' una domanda senza risposta: come facciamo ad essere sicuri che cio' che chiamiamo realta' non sia
illusione?
Chi sono i burattini e chi i burattinai?
Ogni tentativo di risposta non tarda a rivelare la sua inconsistenza e la sua "finzione" e si dissolve nell'opacita' del
"reale", come sembra sciogliersi il replicante Roy, sotto la pioggia acida, verso la fine di "Blade Runner".
Leggi la seconda parte dell'Articolo: Cinema e Psicoterapia: Un impiego
"strategico" dei film - Come costruire una "realta' inventata": psicoterapia e cinema a confronto (II)
Dott.ssa Felicita Dell'Aquila
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