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Fiducia e trappole dello psicologo

L'articolo "Fiducia e trappole dello psicologo", parla di:

  • Alleanza terapeutica e fiducia
  • La trappola dello psicologo
  • Ostacoli alla creazione di un'alleanza
Psico-Pratika:
Numero 183 Anno 2022

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Fiducia e trappole dello psicologo

A cura di: Luisa Fossati
La costruzione della fiducia nei percorsi psicologici: come posso facilitarla senza cadere nella "trappola dello psicologo"?
Per parlare di fiducia nella relazione tra psicologo e cliente penso che sia doveroso iniziare facendo riferimento al tema dell'alleanza terapeutica. Si tratta un fattore di rilievo per l'efficacia di un trattamento psicologico (Del Re, Fluckiger, Wampold, Symonds, Horvath, 2011) e si configura come una variabile terapeutica aspecifica con buona capacità di predire l'esito di un trattamento, per questo è un aspetto particolarmente importante. Conoscere le tecniche e gli strumenti pratici di valutazione e intervento è sicuramente fondamentale nella nostra professione di psicologi. Tuttavia, se manca un'alleanza solida, l'intervento difficilmente andrà a buon fine.

In questo articolo non vorrei limitarmi a parlare di alleanza terapeutica, ma vorrei allargare la riflessione al tema della fiducia. Lo psicologo, infatti, opera in diversi contesti in cui la creazione di una relazione solida è fondamentale. Pensiamo, ad esempio, al lavoro negli sportelli di ascolto nelle scuole o al lavoro nel supporto alla genitorialità o al lavoro di assessment clinico (sia con gli adulti che con i bambini).
Allo stesso modo, la creazione di relazioni solide e di fiducia tra cliente e psicologo è fondamentale anche in ambito aziendale. Pensiamo, ad esempio, ai contesti di selezione o di analisi di potenziale o anche alla formazione. La persona come può esporsi se non si fida e se non si sente in un contesto sicuro?

Per comprendere meglio questo concetto, ci viene a supporto il nostro Codice Deontologico e in particolare l'Articolo 3:
«Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell'individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace [...]»
Per poter aiutare le persone a comprendere sé stesse e accrescere la loro consapevolezza, indipendentemente dall'ambito in cui operiamo come psicologi, dobbiamo necessariamente creare relazioni di alleanza, fiducia e di non giudizio che facciano sentire la persona al sicuro nell'esplorare se stessa e il suo agire nel mondo.

Quali sono i fattori relazionali che facilitano la creazione di relazioni efficaci?
Rifacendoci sempre alla letteratura sull'alleanza terapeutica, sono interessanti gli aspetti che Ackerman e Hilsenroth (2001, 2003) mettono in evidenza: la benevolenza e la capacità di essere responsivi così come la capacità di essere flessibili, empatici, comprensivi e rispettosi dando alla persona la possibilità di esplorare temi personali in un contesto di accoglienza, sicurezza emotiva e incoraggiamento. A ciò si unisce l'interesse genuino per quello che l'altro ci racconta.
Questi aspetti ci aiutano a comprendere cosa faciliti la creazione di una relazione di fiducia cliente/psicologo.

Se immagino che per uno psicologo sia facile e, forse, persino ovvio tenere presenti questi aspetti relazionali, dall'altro lato quando siamo immersi nella relazione possiamo correre il rischio di cadere in alcune trappole. In questo articolo vorrei concentrarmi su una in particolare, quella che io ho chiamato "la trappola dello psicologo".
Com'è fatta la trappola?
Quando una persona richiede il nostro aiuto o, comunque, partecipa a un intervento in cui c'è uno psicologo che, in qualche modo, opera per aumentare i livelli di consapevolezza della persona o di un gruppo, abbiamo sempre un obiettivo concordato con il nostro cliente. Ad esempio, in psicoterapia possiamo avere l'obiettivo di lavorare sugli attacchi di panico o interrompere il circolo vizioso della rimuginazione; in uno sportello di ascolto a scuola possiamo avere l'obiettivo di ridurre la tensione che sta vivendo un ragazzo nell'affrontare una certa situazione, in un assessment di analisi di potenziale in azienda, possiamo avere l'obiettivo di aiutare la persona a mettere a fuoco le sue aree di forza o di miglioramento sulle competenze manageriali. Anche in selezione abbiamo obiettivi come, ad esempio, capire se le caratteristiche personali sono in linea con il ruolo e aiutare la persona a mettere a fuoco se le sue competenze e le sue motivazioni sono in linea con le aspettative aziendali. Nella formazione ci sono gli obiettivi del percorso formativo specifico.

L'obiettivo, specie se abbiamo un tempo definito per raggiungerlo, può metterci una certa ansia e indurci a raggiungerlo il prima possibile.
Questa, secondo me, è la trappola dello psicologo: sentire l'urgenza di risolvere il prima possibile secondo i nostri tempi.
Sebbene l'intenzione potrebbe anche essere buona, il rischio che corriamo è quello di restare concentrati su di noi e perdere di vista l'ascolto dell'altro.

Confrontandomi con colleghi psicoterapeuti è emerso più volte l'aver commesso questo errore: cercare di andare veloci e risolvere in fretta, perdendo però di vista i tempi della persona. I sintomi, infatti, possono essere la conseguenza di forme di adattamento che la persona ha messo in atto (Andrew G. Billings e Rudolf H. Moos, 1981). Volerli sradicare rapidamente non solo può essere una battaglia persa, ma può essere anche controproducente se si agisce troppo presto, perché si va ad aggredire modi che, per quanto disfunzionali, la persona ha trovato per adattarsi all'ambiente meglio che ha potuto. Se non ha alternative adattive convincenti non è detto che andare veloci sia la soluzione migliore.

A questo proposito vorrei porre l'accento su un tema scomodo: il bisogno di sentirci bravi terapeuti cercando conferme di ciò da parte dell'altro. In altre parole: se ti faccio stare bene e ti tolgo il sintomo, riconosci la mia bravura e posso dirmi di essere un bravo terapeuta. Attenzione perché questo meccanismo ci porta completamente fuori strada, concentrandoci su di noi e perdendo di vista l'altro.
Il meccanismo è lo stesso anche se ci spostiamo ad altri ambiti: il bisogno di avere feedback come "bravo assessor" o "bravo psicologo scolastico" o "bravo selezionatore" ecc. può farci perdere il focus sul nostro obiettivo profondo, quello del già citato articolo 3 del Codice Deontologico.

Ackerman e Hilsenroth, nella loro ricerca, misero in evidenza un'altra cosa importante: gli aspetti che ostacolano la creazione di un'alleanza solida. In particolare, hanno rilevato la rigidità di pensiero, la mancanza di coinvolgimento e interesse per ciò che dice la persona (che è quello che succede quando, mentre la persona parla, ci arrovelliamo il cervello per capire quale domanda porre prima ancora che la persona abbia terminato di parlare), l'autoreferenzialità, la tendenza a distrarsi (quando siamo con il cliente e pensiamo a quanto stiamo sbagliando o a quanto non siamo bravi come vorremmo, ci stiamo distraendo), al criticismo o la scarsa fiducia nelle proprie capacità di aiuto.
Farsi prendere dal bisogno di "curare" o di raggiungere gli obiettivi ai tempi che diciamo noi, rischia di mandarci completamente fuori strada, perché possiamo rendere il setting poco sicuro, ansiogeno o poco accogliente e quindi non favorire la crescita delle persone.
Come evitare la trappola?
Come facciamo a evitare le trappole in contesti, come ad esempio quelli aziendali, in cui abbiamo in tempo limitato? Sicuramente una componente di rischio c'è. Quando si lavora con la complessità (e le persone e le relazioni sono complesse) non possiamo avere mai la certezza di un risultato. Partiamo, quindi, dalla possibilità che no, il risultato non abbiamo la certezza di raggiungerlo. Inoltre, è necessario mettere in conto anche la possibilità che potremmo sbagliare. Siamo esseri umani, possiamo commettere errori. Non ci piace, ma è una possibilità. Se riusciamo a sentirci solidi nelle nostre competenze tecniche e relazionali e accettare questi rischi, allora possiamo immergerci nell'ascolto e "goderci il viaggio" senza dover attivare mille pensieri e sistemi di controllo.
Alla fine dei nostri interventi facciamo autoriflessioni su di noi; diamoci dei feedback non giudicanti, ma più obiettivi possibile; andiamo in supervisione; studiamo e prendiamoci cura di noi accettando anche i nostri limiti. In questo modo possiamo avere buone probabilità di evitare di cadere nella trappola.
Bibliografia
  • Andrew G. Billings e Rudolf H. Moos, The role of coping responses and social resources in attenuating the stress of life events, in Journal of Behavioral Medicine, vol. 4, n. 2, 1° giugno 1981, pp. 139-157
  • Ackerman, S. J. & Hilsenroth, M. J. (2001), A review of therapist characteristics and techniques negatively impacting the therapeutic alliance, Psychotherapy Theory Research & Practice, 38 (2), 171-185.
  • Ackerman, M.J. & Hilsenroth M. J. (2003), A review of therapist characteristics and techniques positively impacting the therapeutic alliance, Clinical Psychology Review, 23 (1), 1-3
  • Cirimbilla, E. (2020), L'alleanza terapeutica in età evolutiva: un percorso tra creatività e collaborazione, Psicoterapeuti In-formazione, 25.
  • Del Pianto, E. (2004), Assessment Center, Milano: Franco Angeli
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