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Dipendenza affettiva: come gestire l'inizio del lavoro terapeutico?

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Dipendenza affettiva: come gestire l'inizio del lavoro terapeutico?

L'articolo "Dipendenza affettiva: come gestire l'inizio del lavoro terapeutico? ", parla di:

  • Riconoscere la dipendenza affettiva
  • I diversi tipi di dipendenza
  • Il lavoro dello psicologo
Psico-Pratika:
Numero 180 Anno 2021

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Dipendenza affettiva: come gestire l'inizio del lavoro terapeutico?

A cura di: Luisa Fossati
Dipendenza affettiva: come gestire l'inizio del lavoro terapeutico?
Da qualche anno si sente sempre più parlare di dipendenza affettiva. Sono cresciuti gli articoli, le divulgazioni, i libri sul tema. Se da un lato questo aspetto è positivo perché significa maggiore informazione, dall'altro lato quando i termini tecnici si diffondono in modo ampio c'è il rischio di fare confusione, attribuendo ad essi significati errati.
Facciamo ordine.
La dipendenza affettiva non rientra tra i disturbi mentali indicati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali - 5. Questo per mancanza di dati sperimentali. Tuttavia, la dipendenza affettiva rientra nelle New addiction, come la dipendenza da internet, la ludopatia, la dipendenza da shopping o da lavoro.

Spesso accade che una persona venga a chiedere una consulenza definendosi dipendente affettiva. La prima cosa da fare, come per ogni disagio che ci viene portato, è approfondire le motivazioni che portano a definirsi dipendenti da quella relazione.
Nella mia esperienza sono numerosi i casi di persone che avevano confuso la dipendenza con altri tipi di malessere. In particolare, i principali che ho osservato sono:
  1. Chiusura recente di una relazione importante e difficoltà a liberarsi della tristezza che ne era derivata. In questi casi la cosa da fare è normalizzare questa emozione e indicare, anche attraverso una buona psicoeducazione, il ruolo che ha nell'elaborazione delle perdite. Si rivela molto utile aiutare la persona a far uscire la tristezza e guidarla nel darle un significato e un valore. Spesso le persone temono la tristezza e la richiesta implicita è quella di toglierla nel minor tempo possibile. In realtà sappiamo bene che nelle perdite si tratta di un'emozione adattiva, utile cioè ad elaborarle.
  2. Ambivalenza di sentimenti verso il partner. Lo dico sempre che nella nostra società la coerenza logica è troppo sopravvalutata. Le emozioni non funzionano secondo le leggi della logica e provare sentimenti ambivalenti non è sinonimo di problema. Una parte di me può sentirsi stretta in una relazione e desiderare maggiore spazio, mentre un'altra parte teme fortissimo la lontananza del partner. Può succedere e, anzi, nelle relazioni di coppia succede spesso. In questi casi è utile aiutare la persona ad ascoltare diverse parti di sé e comprenderne i bisogni. Ci sono molti metodi per lavorare sulle parti del sé. Qualsiasi metodo scientificamente fondato va benissimo; la cosa importante è essere ben preparati, perché il lavoro sulle parti si rivela spesso molto delicato e se il professionista non tiene bene le redini del processo terapeutico, può facilitare l'aumento della confusione nel paziente.
Quando invece si può pensare a una dipendenza affettiva?
La risposta non è semplice perché possono esserci diversi modi in cui una dipendenza affettiva può manifestarsi. Il denominatore comune è il fatto di riuscire a soddisfare i propri bisogni di amore e riconoscimento solo attraverso il partner. Come nelle dipendenze da sostanze c'è uno sfrenato bisogno della sostanza, così nella dipendenza affettiva c'è uno sfrenato bisogno del partner, costi quel che costi. Ce ne accorgiamo perché ci parlano di terrore della perdita, respiro che manca, ansia ingestibile, pianti, "non riesco a vedere futuro senza di lui", "si apre un baratro profondissimo a immaginarmi senza di lui".
Inoltre, nelle persone passivo-dipendenti e co-dipendenti (le cui caratteristiche saranno descritte a brevissimo) c'è una forte tendenza a vedere sé stessi come unici responsabili dei momenti negativi della coppia. In altre parole: se le cose vanno bene è la prova tangibile che il partner sia la persona perfetta per me; se vanno male è perché io non sono stato/a capace di renderlo/a felice o di tenermelo/a stretto/a.

Diversi tipi di dipendenza affettiva

Massimo Borgioni, nel suo libro "Dipendenza e controdipendenza affettiva. Dalle passioni scriteriate all'indifferenza vuota", distingue quattro tipi di dipendenza:
  1. Passivo-dipendente
  2. Co-dipendente
  3. Aggressivo-dipendente
  4. Contro-dipendente (che raramente viene in terapia e spesso droppa)
Cosa si intende?
Passivo dipendente: "tu mi salverai"
Capita spesso di incontrare questo tipo di dipendenza; nella mia esperienza è la più frequente insieme alla co-dipendenza. Generalmente riguarda le donne, ma mi è capitata di incontrarla anche in pazienti uomini.
Ha due caratteristiche chiave questo tipo di dipendenza:
  • Il terrore di perdere l'altra persona;
  • Il bisogno di costanti conferme e manifestazioni da parte dell'altro.
Questi due funzionamenti innescano un paradosso, perché se da un lato c'è la tendenza ad annullarsi pur di non perdere l'altro, dall'altro lato ciò che il partner farà per dimostrare amore sarà percepito come "mai abbastanza", con la conseguenza che l'individuo dipendente protesterà spesso richiedendo maggiori attenzioni. Perché paradosso? Perché un partner che si sente fare continue richieste, a un certo punto potrà perdere la pazienza o comunque stancarsi. Questo lo porterà ad arrabbiarsi o allontanarsi, innescando il terrore dell'abbandono. Questo terrore porta ad agire comportamenti come annullarsi, chiedere scusa a prescindere, giudicarsi negativamente. Esempio:
  • Primo scenario: Maria sta con Luigi e non può fare a meno di lui, delle sue conferme, delle sue manifestazioni di amore. Per Maria, però, le manifestazioni di affetto di Luigi non sono mai abbastanza, così diventa sempre più richiestiva. Ad esempio, quando Luigi vede la sorella, Maria si arrabbia accusandolo di mettere la sorella al primo posto. Ora, è possibile che dopo un po' di queste richieste, Luigi si stanchi e lasci Maria. Come reagirà Maria? Disperandosi e dicendo a sé stessa di non valere abbastanza, che per questo le persone la lasciano.

  • Secondo scenario: Luigi ha tratti narcisistici e vedere Maria adorante lo lusinga, quindi difficilmente la lascerà. Quando Maria farà le sue richieste di attenzione, Luigi minaccerà di abbandonarla; così, presa dal terrore, Maria chiederà scusa, si giudicherà negativamente, si annullerà e ritirerà la richiesta, con grande soddisfazione di Luigi. Passa il tempo e la dinamica si ripete; può andare avanti anni, può andare avanti tutta la vita.

Perché queste persone chiedono aiuto? Perché stanno male, ma lo psicologo non deve dare per scontato che intendano uscire dalla relazione. Spesso la domanda implicita è: "Aiutami a stare bene senza che debba cambiare nulla nella relazione". Cosa che, chiaramente, non è possibile. Sarebbe come se un alcolista chiedesse di star bene senza rinunciare agli alcolici.
Pertanto, il professionista deve essere abile nell'esplicitare la domanda:
  1. Se stanotte avvenisse una magia e le cose cambiassero, come sarebbe la sua vita?
  2. Una volta finita la terapia, quali obiettivi vorrebbe aver raggiunto?
  3. Mette in conto la possibilità di chiudere questa relazione? Se le risposte a questa domanda hanno per soggetto l'altra persona (es. vorrei riuscire a far capire a lui che sono la donna della sua vita; vorrei riuscire a farmi amare da lui, ...), allora dobbiamo essere chiari nel dire che non possiamo aiutarla perché noi possiamo aiutare lei a lavorare su di sé ma non possiamo agire sui comportamenti di altri. È molto importante essere chiari sul fatto che il lavoro insieme è finalizzato a potenziare l'indipendenza della persona.

    Co-dipendente "io ti salverò"
    Si tratta di quel tipo di dipendenza che è nota come "sindrome della crocerossina". Si tratta di persone (di solito donne) che stanno con individui problematici, ad esempio tossicodipendenti o antisociali o affetti da qualche tipo di patologia, che cercano di salvare. L'idea inconsapevole di fondo è: "Se io ti salverò allora tu non potrai fare a meno di me e non mi lascerai mai".
    Tuttavia, gli individui problematici spesso hanno più di un problema relazionale. Ad esempio, possono essere alcolisti, antisociali, persone con disturbi di personalità.
    Ricordo questa donna che stava con un uomo che aveva subito abusi sessuali dallo zio per tutta la sua infanzia, con il benestare dei genitori. Quest'uomo aveva sviluppato un profondo senso di solitudine, tratti depressivi ma, allo stesso tempo, si sentiva in diritto di fare tutto ciò che desiderava perché "con quello che ho passato, qualsiasi cosa mi renda felice ho il diritto di non lasciarmela scappare". Di conseguenza, tradiva facilmente, non teneva fede agli impegni presi se trovava qualcosa di meglio da fare, cambiava spesso idea e umore. Lei si era annientata nel tentativo di salvarlo e diceva: "Se all'inizio della nostra relazione eravamo così felici, perché non possiamo tornare ad esserlo ancora?". Il problema di questo ragionamento è che la persona dipendente vede il proprio modo di agire nella relazione come l'unica variabile che impatta nella coppia. Così, se lui la tradisce "è colpa mia che non sono stata in grado di amarlo abbastanza, devo impegnarmi di più"; se lui non rispetta gli impegni "sono io che pretendo troppo". Tuttavia, alla lunga la persona dipendente che ha bisogno di considerazione, può protestare suscitando nell'altro risposte del tipo: "E io che pensavo che tu mi capissi" oppure "Anche tu sei come tutti gli altri, che alla fine dicono di volermi bene e poi sperano solo di controllarmi". Queste risposte susciteranno il terrore di perdere l'altro e quindi la "crocerossina" potrà chiedere scusa, annullarsi, ecc.

    Perché chiedono aiuto? Perché esauriscono le energie a forza di dedicarsi all'altra persona e questo le porta a sentirsi stanche, sole e tristi.
    Attenzione, però, perché la richiesta implicita può essere "tu che sei psicologo/a aiutami a capire come salvarlo". Chiaramente non possiamo colludere con questa richiesta ed è molto importante guidare la persona nel mettere a fuoco che sono queste dinamiche relazionali la fonte del suo disagio e non il fatto che non riesca a salvare l'altro. Questo anche per un altro motivo: sotto sotto la "crocerossina" non desidera realmente salvare l'altro, perché questo non la renderebbe più indispensabile.
    È importante, quindi, mettere a fuoco con chiarezza la richiesta e definire in modo altrettanto chiaro gli obiettivi terapeutici che devono essere legati a sé e non all'altra persona.
    Esempi di obiettivi: riuscire a prendere spazio per me e per le cose che mi piacciono (evitando, quindi, di mettere i bisogni e le richieste dell'altro al primo posto); riuscire a dire no quando l'altro mi chiede di fare cose che non voglio fare (ad esempio rinunciare alla palestra per stare con lui).

    Aggressivo dipendente "tu non sei capace di salvarmi"

    Raramente mi capita di incontrare persone che innescano relazioni di questo tipo ma a volte capitano anche loro. Il fulcro sta nello screditare l'altra persona; l'altro viene guardato con disprezzo e sfiducia, ma allo stesso tempo c'è la sensazione di non riuscire a farne a meno perché il vissuto è quello che tanto non si possa aspirare a niente di meglio. L'altra persona, d'altro canto, può presentare tratti di passività oppure a sua volta manifestare la stessa modalità aggressiva-dipendente. Mi è capitato di lavorare con una donna tradita continuamente da un marito che disprezzava e che offendeva, ma da cui non poteva immaginare di staccarsi.

    Perché chiedono aiuto? Di solito per motivi che non hanno a che fare con la relazione; ad esempio per problemi di lavoro, familiari ecc. In qualche modo questo tipo di relazione viene considerata normale, infatti è più probabile incontrare coppie che si relazionano in questa dinamica.
    Come professionisti, anche in questo caso è importante aiutare la persona a vedere la tossicità della relazione in termini di conseguenze sul benessere proprio, dell'altro e della relazione.
    Mi viene in mente una coppia incontrata tempo fa: Gloria e Carlo. Gloria appariva come una donna sofferente, che alternava momenti di pianto a dirotto in cui diceva di sentirsi sola e non considerata, a momenti di accusa e screditamento verso Carlo, accusato di non fare mai abbastanza per lei e per il loro bambino. Carlo, a sua volta, quando Maria piangeva o si irritava, si limitava per lo più a chinare la testa sconsolato o a girarsi dall'altra parte e dire: "Tanto per lei tutto quello che faccio è sbagliato". Quando pronunciava frasi simili a questa, Gloria diventava rossa e contrattaccava: "Ma quando fai qualcosa? Sei sempre preso dalle tue cose". Carlo ribatteva: "Ma se ho rinunciato a tutti i miei passatempi e hobbies per dedicare tempo a te e a nostro figlio". Gloria piangeva singhiozzando girandosi dal lato opposto.
    Per Gloria, in realtà, non c'era un reale standard a cui Carlo potesse tendere, perché le richieste aumentavano sempre. Dall'altro lato Carlo, con la sua modalità passiva, incassava alternando silenzi a lamentele.
    In situazioni tipo queste il conflitto è la regola ed è funzionale a entrambi a mantenere la relazione: al partner aggressivo-dipendente per esercitare un controllo, al partner passivo-dipendente per non perdere la relazione.
    In questi casi difficilmente la dinamica può essere riequilibrata e spesso la rottura della relazione è probabilmente l'unica soluzione. Così come l'interruzione del rapporto con la sostanza è necessaria per uscire da un rapporto di dipendenza.

    Il contro-dipendente "nessuno può salvarmi"

    Raramente arriveranno a chiedere una consulenza, perché vedono l'altro come causa dei loro mali; inoltre, non si fidano degli altri quindi affidarsi a uno/a psicologo/a è visto come qualcosa di impensabile.
    La forma contro-dipendente è un tipo di dipendenza che si esprime nel suo opposto (per questo si parla di contro-dipendenza). Visti da fuori, infatti, gli individui con questo meccanismo relazionale difficilmente vengono associati alla dipendenza, in quanto ciò che colpisce è spesso la distanza e la freddezza. Si tratta di individui che tendono a non legarsi e a sfuggire. Le relazioni primarie di queste persone sono di solito caratterizzate da abbandoni, traumi e spesso abusi. Questo porta il bambino a vedere le relazioni come qualcosa di talmente pericoloso da prenderne le distanze quanto prima. Un po' come dire: "Se stare in relazione vuol dire soffrire così tanto allora meglio diventare autonomo e lasciar perdere gli altri".

    La differenza fra gli altri tipi di dipendenza affrontati e il contro-dipendente è che i primi hanno in qualche modo sentito la presenza delle figure genitoriali; seppure a momenti o in modo discontinuo hanno sperimentato il legame affettivo. Il contro-dipendente ha imparato che la relazione non protegge, ferisce, fa del male. Penso a Giacomo (nome di fantasia) figlio di una donna molto stimata sul lavoro ma totalmente anaffettiva, che era a conoscenza degli abusi subiti dal figlio da parte del sacerdote del paese. Quando l'allora bambino provò a dire ai genitori ciò che gli stava accadendo, il padre lasciò la stanza senza dire nulla e la madre prima gli dette uno schiaffo e poi gli dette del bugiardo. Giacomo aveva sviluppato un funzionamento contro-dipendente; aveva numerose storie di sesso che però non portavano mai a un vero legame. Spesso trattava male le persone con cui intraprendeva un qualche tipo di legame. Il distacco emotivo diventa il meccanismo di difesa per eccellenza; un modo per sancire con se stessi che non si ha bisogno degli altri.

    Perché chiedono aiuto? Talvolta perché si sentono depressi a seguito delle frustrazioni che possono provare quando il mondo non gira come loro vorrebbero. C'è un desiderio di successo e rivalsa che però non sempre arriva, e quando non arriva si sentono depressi. Per questo chiedono aiuto. Tuttavia, spesso non hanno realmente la spinta a mettersi in discussione; sperano di trovare la "tecnica magica" che tolga la depressione senza dover modificare nessun equilibrio.

    È difficilissimo lavorare con queste persone perché non si fidano, sono spesso screditanti e la terapia può addirittura essere vista da loro, più o meno inconsapevolmente, come la prova tangibile che non c'è nulla da fare: "Vedi? Io ci provo a mettermi in discussione, ma non sto meglio, quindi cambiare qualcosa nella mia vita non serve a niente". Questo li porta a boicottare, non dare alcun peso ai passi avanti e al lavoro terapeutico. Ricordo un uomo che aveva cambiato sei terapeuti per concludere che "la psicoterapia con me non funziona; non c'era niente da fare". Chiaramente sappiamo che se questo è l'atteggiamento di partenza, qualunque terapia rischia di essere fallimentare.
    Quello che possiamo fare è soprattutto su di noi: non cadiamo noi nella trappola di volerli salvare a tutti i costi. Possiamo aiutarli a vedere come le loro relazioni siano disfunzionali e tossiche, ma se veniamo screditati o non presi sul serio non dobbiamo impuntarci per far cambiare idea all'altra persona.

    Riflessioni sul lavoro dello psicologo con la dipendenza affettiva
    Può essere veramente molto difficile lavorare con una dipendenza affettiva perché ci mette molto alla prova. Infatti:
    1. Dobbiamo entrare nell'ordine di idee di lavorare con il paradosso e l'incoerenza. In una seduta questi tipi di pazienti possono manifestare di aver messo a fuoco la tossicità della relazione e quella successiva possono saltarla perché il partner ha chiesto la loro presenza proprio il giorno e l'ora dell'appuntamento. Inoltre, possono portare emozioni profondamente contrastanti sul partner: oggi lo amano, domani lo odiano, poi lo amano e poi lo odiano.
    2. Dobbiamo tollerare la frustrazione: oggi riconoscono il male che l'altra persona fa loro, domani arrivano in seduta dicendo "però anche io ho le mie colpe; lui poverino...". In questi casi avremmo voglia di metterci le mani nei capelli e riportare loro le parole dell'ultima seduta, ma il rischio è quello di far trapelare il nostro giudizio. Il giudizio è il nemico delle relazioni di aiuto, perché allenta la relazione terapeutica. In questi casi occorre restare accoglienti con la persona e confrontarla con delicatezza con altri vissuti che ci ha portato.
    3. Dobbiamo andare oltre l'emergenza: una persona con dipendenza affettiva, molto frequentemente arriverà in seduta con le emozioni a mille (tristezza, rabbia, ansia, ecc.). Questo può portarci a lavorare sempre sull'emergenza. In realtà occorre andare oltre, perché per lavorare su una dipendenza affettiva è necessario esplorare la storia di vita delle persone e cogliere i momenti in cui ha appreso le strategie disfunzionali per stare in relazione.
    4. Dobbiamo entrare nell'ottica di essere assertivi e non porci come salvatori. Chi si trova in una dipendenza affettiva di solito non è abituato/a ad una relazione normale e funzionale, altrimenti non sarebbe nella condizione in cui si trova. Pertanto, è possibile che con il/la terapeuta, sperimentando qualcosa di diverso, ci sia la tendenza a boicottare la relazione. Penso ad un collega che lavorando con una donna con comportamenti passivo-dipendenti si è posto come il "salvatore" accogliendola sempre, passando sopra ai suoi ritardi e salti di seduta. Nel giro di pochi mesi questa donna ha lasciato la terapia. Occorre invece stabilire delle regole e dei confini; questo aiuta infatti a dare strumenti utili su come creare relazioni chiare, prendersi impegni, creare fiducia. Detto ciò, se accettiamo la sfida e riusciamo a non farci prendere dallo sconforto e dal giudizio, possiamo veramente essere di aiuto alle persone con dipendenza affettiva. Questo è possibile attraverso la creazione di una relazione terapeutica solida e non abbandonica in cui dare modo alle persone di esplorare le loro ferite e imparare a creare relazioni funzionali.
      Bibliografia
      • Borgioni, M (2017). La deriva controdoipendente come deriva del nostro tempo. Da persona a persona: Rivista di studi rogersiani. Pp. 73-78.
      • Borgioni, M. (2015). Dipendenza e controdipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate all'indifferenza vuota. Roma: Alpes Italia.
      • Norwood, R. (1985): Donne che amano troppo. Milano: Feltrinelli.
      • Karpman, S.B. (1968). Fairy Tales and Script Drama Analysis, in Transactional Analysis Bullettin, vol VII, n. 26, pp 39-43
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