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Suicidio. Aumento di suicidi dopo le dimissioni ospedaliere

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Suicidio. Aumento di suicidi dopo le dimissioni ospedaliere
UK. Ricerche e strategie per la prevenzione del suicidio dopo gesti autolesivi

L'articolo "Suicidio. Aumento di suicidi dopo le dimissioni ospedaliere" parla di:
  • Dimissioni e tassi di suicidio: riduzione prematura delle cure
  • Limiti e spersonalizzazione dei Sistemi di cura istituzionali
  • Prevenzione: valutazione del rischio e piano post-dimissioni
Psico-Pratika:
Numero 120 Anno 2015

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A cura di: Redazione - Pubblicato il 5 ottobre 2015

Suicidio. Aumento di suicidi dopo le dimissioni ospedaliere
UK. Ricerche e strategie per la prevenzione del suicidio dopo gesti autolesivi

Una percentuale rilevante di suicidi avviene nel periodo immediatamente successivo alle dimissioni dal ricovero ospedaliero - spesso entro la prima settimana - specialmente per coloro che hanno alle spalle una storia di psicopatologie gravi o precedenti tentati suicidi.
La letteratura scientifica conferma: «le vittime di suicidio spesso hanno avuto contatti con il sistema di cura della salute mentale prima di morire» (*).

Questo avvalla l'ipotesi che i congedi dalle strutture spesso avvengano in modo prematuro - senza avere soddisfatto i bisogni clinici dei pazienti o senza adeguato trattamento di follow-up - esortando a una più rigida supervisione clinica nella dimissione di pazienti psichiatrici, soprattutto per coloro che hanno già manifestato tendenze suicide (*).

Così si legge sull'ultimo numero di The Lancet Psychiatry (*) in un articolo sul rischio di suicidio e mortalità a seguito di gesti autolesivi, firmato da Ross J. Baldessarini, Professore di Psichiatria dell'Università di Harvard (*), e dal Dottor Maurizio Pompili (*), Ricercatore della Sapienza di Roma che, proprio lo scorso settembre, ha diretto i lavori del convegno "La prevenzione del suicidio: avvicinarsi e salvare vite" per la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio (*).

La letteratura scientifica rivela come il rischio di suicidio aumenti in prossimità delle dimissioni dalla degenza ospedaliera e che quindi il fenomeno possa essere correlato anche a una riduzione prematura dell'intensità delle cure (*).

Già nel 2006, il Dottor Eberhard A. Deisenhammer della Clinica Universitaria di Psichiatria Generale e Sociale dell'Università di Medicina di Innsbruck (*) notava che - su un campione di 665 persone morte suicide nell'arco di 12 mesi (*) - il 16,4% era stato ricoverato almeno una volta.
Fra le vittime che avevano ricevuto un'ospedalizzazione:

  • il 28,4% era stato dimesso da una settimana
  • il 47,7% era stato dimesso nell'ultimo mese

Louis Appleby (*) - voce autorevole nel campo della ricerca e della prevenzione del suicidio - incoraggia quindi a fornire supporto oltre all'apparente "guarigione clinica", a prolungare le cure e limitare i rischi dell'isolamento sociale (*).

Anche le recenti ricerche di Nav Kapur (*) - responsabile di ricerca del Centre for Suicide Prevention dell'Università di Manchester (*) - confermano che il decesso per suicidio è più frequente nel periodo successivo alle dimissioni, soprattutto fra i pazienti più giovani.
Kapur e colleghi (*) si interrogano anche sugli effetti che il sistema ospedaliero possa avere sul rischio di mortalità, tema finora poco esplorato.

A tal proposito - nell'articolo di Pompili e Baldessarini - si fa notare che, spesso, i comportamenti suicidari vengono considerati un elemento concomitante alla patologia psichiatrica, limitando di fatto l'indagine sul rischio suicidario come fenomeno in se stesso.

Queste limitazioni sono piuttosto comuni nei sistemi di cura istituzionali, dove le condizioni oggettive non favoriscono un'attenta valutazione della Psicologia individuale dei comportamenti suicidari, e gli interventi clinico-diagnostici seguono un modello di intervento nella crisi, funzionale sul lato pratico per soddisfare i bisogni clinici immediati, ma meno efficace nel lungo periodo (*).

Secondo Konrad Michel - Clinico dell'Università di Bern, autore di numerose ricerche e attività volte alla prevenzione del suicidio - in tali contesti vi sono «scarse opportunità di esplorare - dalla prospettiva del paziente - cosa si cela dietro a un gesto di autolesionismo» e può anche accadere che il paziente soffra per la spersonalizzazione dell'assessment del suo "status di suicida" (*).

Clinici esperti concordano sul fatto che le relazioni terapeutiche portano risultati efficaci nell'esito di qualsiasi trattamento psichiatrico e che le strategie di prevenzione del suicidio sono più efficaci quando regolarmente applicate: al momento del ricovero, durante le dimissioni e nel periodo immediatamente successivo.

Per arginare il fenomeno occorre una attenta valutazione del rischio suicidario e una puntuale pianificazione del trattamento post-ospedalizzazione, onde evitare che i pazienti - con le dimissioni - tornino a vivere le medesime condizioni che hanno preceduto il loro gesto autolesionistico.

Fra le possibili iniziative per ridurre il rischio di suicidio dopo gesti autolesivi, Pompili e Baldessarini (*) suggeriscono di:

  • porre la stessa attenzione ai bisogni psichiatrici quanto alla condizione medica generale dei pazienti;
  • intensificare la comunicazione tra i clinici coinvolti nelle cure in essere e in quelle successive alla dimissione;
  • congedare i pazienti avendo un preciso piano di cura, che preveda anche un contatto con i clinici responsabili prima delle dimissioni;
  • garantire supporto sociale al paziente, coinvolgendo i familiari o gli amici.

Il suicidio si può prevenire.
È «la più elevata priorità nell'agenda globale di salute pubblica» (*).

Questo è l'imperativo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che, per il 2020, ha stabilito un ambizioso obiettivo: ridurre il tasso di suicidi del 10%.

Impegno dovuto anche nei confronti di chi rimane poiché - informa sempre l'OMS - ogni suicidio colpisce gravemente almeno sei persone.
Quelle che il Dottor Maurizio Pompili definisce «vere vittime collaterali» (*).

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