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La violenza e la parola

L'articolo "La violenza e la parola" parla di:

  • Alterità e ambivalenza: dimensioni dell'essere umano
  • Manifestazione dell'aggressività
  • La cura psicoanalitica
Psico-Pratika:
Numero 148 Anno 2018

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Articolo: 'La violenza e la parola'

A cura di: Sara Pasqualin
    INDICE: La violenza e la parola
  • La violenza e la parola
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
La violenza e la parola

La violenza è l'uso di una forza di costrizione, si costringe la volontà di un altro.
Si opprime la parola, il corpo; non si riconosce il soggetto che l'altro è. Non si riconosce l'alterità dell'altro. Il fatto che l'altro non è un nostro doppio speculare, ma qualcun altro, con un altro corpo, un altro pensiero. L'altro è sempre sotto il segno del diverso, dello straniero, non dell'identico. Così come i sentimenti che proviamo non sono intessuti in un'unica stoffa, non sono unitari, ma ambivalenti.

Pensare alla violenza ci introduce a delle dimensioni strutturali dell'essere umano: l'alterità e l'ambivalenza. Strutturali perché riguardano come un essere umano viene ad umanizzarsi, a strutturarsi.
Il primo straniero, verso cui si prova un sentimento ambivalente, un'ambivalenza di amore e odio, è un Altro arcaico che possiamo più o meno identificare con la madre.
Quando nasciamo il sistema piramidale del sistema nervoso e la coordinazione motrice sono in uno stato di prematurazione, richiedono le cure materne per potersi sviluppare; cure psichiche, affettive e corporee.
Senza queste cure l'infante non può svilupparsi.
Per esempio, nel XVIII secolo il medico Itard, che provò a culturizzare un bambino nominato Victor misteriosamente ritrovato nelle foreste francesi dell'Aveyron (sopravvissuto inspiegabilmente, come molti casi analoghi dell'epoca), si ritrovò davanti all'insormontabile scoglio dei danni irreparabili prodotti nel piccolo dalle carenze affettive. Victor presentava difficoltà a localizzare e nominare gli oggetti; la sua impossibilità di entrare in relazione con l'ambiente sociale si radicava nell'impossibilità di percepirsi.
Se un neonato viene lasciato a se stesso, muore, non può sopravvivere senza le cure dell'altro e queste cure non possono essere anonime.

La violenza e la parola

L'Altro materno è la totalità delle necessità del bambino, gli fornisce tutti gli oggetti permettendogli di esistere. Ferenczi, in un articolo del 1929, afferma che "il lattante è molto più vicino alla non esistenza individuale di quanto non lo sia l'adulto che ne è separato dall'esistenza della vita".
Come possiamo cogliere dalle osservazioni di Spitz.
Nel 1946 Spitz osservò bambini ospedalizzati che venivano lasciati alle cure meccaniche e anonime di un'istituzione ospedaliera. Questi bambini presentavano un arresto dello sviluppo talvolta irreversibile.
Questo arresto non era tanto dovuto alla privazione della genitrice, ma alla privazione di un investimento libidico strutturante, nel senso che, prima di ogni possibile soggetto, il bambino è innanzitutto oggetto libidico per un Altro. Ovvero per scoprirsi ed appropriarsi del suo corpo, il bambino ha la necessità di essere toccato dall'Altro, che con il suo tatto e la sua voce lo vada ad erotizzare. Vediamo qui in opera l'amore parentale messo in moto, ci dice Freud, dalla proiezione del narcisismo dei genitori sui figli.
Il neonato non è come un piccolo puledro che appena nato può già inizia a sgambettare, non nasce con un senso di unità corporea che gli consenta una mobilità, ma viene al mondo in uno stato di prematurazione. Questa immaturità fisiologica è sul piano psichico paragonabile ad un corpo in frammenti. La mancata coordinazione degli apparati corporei si manifesta, a livello psichico, nell'angoscia di essere annientato, che prende le forme di fantasmi di smembramento e disgiunzione.
Talvolta ripetiamo cose perché non sono state prese nella parola, nel discorso; eppure vanno a formare il discorso inconscio. Tracce, resti, frammenti si sedimentano nel corpo, che può divenire veicolo di stati emotivi che sfuggono al linguaggio.

Quella tra la madre e l'infante è una relazione corpo a corpo. Una relazione che nasce nel corpo e si sviluppa, inizialmente, tra corpi: la madre, per il neonato, non è colei che ha il seno, ma è il seno, rappresenta una totalità assoluta. L'infante è totalmente dipendente dall'Altro materno che gli consente di essere e di avere tutto. L'esistenza psicosomatica dell'infante dipende da quella che Winnicott ha chiamato la preoccupazione materna primaria: soddisfacendo i bisogni del bambino, la madre gli fornisce assistenza allontanando l'imprevedibilità.

In un primo tempo anche la parola si presenta come materica: il bambino non ha ancora gli strumenti per decodificare la lingua, ma entra nel linguaggio incorporando la voce di quell'Altro di cui è oggetto narcisistico. Una voce che è prima di tutto suono. Un suono che si impone ed enunciando annuncia al bambino. Gli annuncia il suo essere, il suo esistere; è l'Altro che gli dice "tu sei questo". Possiamo cogliere qui l'essenza dell'esperienza narcisistica, ovvero in quella che Lacan ha chiamato la fase dello specchio vediamo come il riconoscimento dell'Altro materno, il riconoscimento dell'infante come soggetto, prima ancora che egli lo sia, gli consente di potersi percepire come un'unità narcisistica. L'unità narcisistica è un'immagine speculare, nel senso che è l'Altro che ci forma, che con le sue parole, con i suoi gesti ci dà quest'immagine. Un'immagine che il bambino può interiorizzare assumendo così una certa immagine di sé, un'immagine sempre tributaria dell'amore e dello sguardo parentale. Ossia l'immagine narcisistica che ci viene dall'Altro consente lo sviluppo di un senso di sé, la percezione di un'unità corporea, la possibilità di una mobilità, ma proprio perché questa funzione unificante viene dall'esterno, il bambino si identifica in qualcosa da cui è separato, fa esperienza di se stesso come altro, vive un'alienazione primordiale.

Vediamo come nello stato di dipendenza assoluta dell'infante si coglie una forma di violenza, che possiamo chiamare di tipo strutturale: consente lo strutturarsi del soggetto umano.
Nel primo tempo della vita dipendiamo assolutamente dall'Altro, da qualcuno che è fuori di noi e ci riceve con il suo desiderio. Il bambino ascolta senza poter parlare, non ha ancora un suo pensiero.
Nel cominciare a sentire un primissimo senso di sé il bambino ha impulsi sadici: vuole divorare, distruggere, ci ricorda la Klein. L'aggressività si esprime anche nei confronti della madre, poiché il bambino cerca di ritagliarsi uno spazio, di tagliare la dipendenza assoluta dall'altro. Per esempio quando il bambino comincia ad imporsi e rifiuta quanto l'adulto gli propone.
La distruttività che il bambino sente gli genera sentimenti di colpa, di paura, di rappresaglia che lo angosciano terribilmente, ha paura di perdere il suo oggetto di amore e allo stesso tempo di esserne annientato. Questi sentimenti ambivalenti sono rimossi, sebbene non siano stati legati dalla parola, perché all'inizio il bambino non sa e non può ancora parlare.
Ma se una madre non consente al bambino di esprimere la sua aggressività, non acconsente allo sviluppo della sua autonomia e il processo di rimozione potrà divenire così massiccio da generare profonde angosce e inibizioni. È necessario che la relazione corpo a corpo tra la madre e l'infante venga abbandonata, che il bambino si separi dall'Altro materno per poter sviluppare un proprio spazio psichico, per costruire una sua autonomia che gli consenta di soggettivizzarsi e implicarsi in un coinvolgimento affettivo con altre persone. La separazione richiede una messa in moto dell'aggressività. Le pulsioni distruttive, i sentimenti di odio, l'aggressività verso la madre sono componenti imprescindibili per la comparsa del soggetto umano. L'odio non è circoscrivibile come l'opposto dell'amore, ma come il fautore dell'amore, della possibilità creativa. Dalla rottura può aprirsi qualcosa, come ci fa cogliere Philip Roth nel romanzo Pastorale Americana:

"L'unica ossessione che vogliono tutti: l'«amore». Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l'amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due"

La manifestazione dell'aggressività non è riducibile ad una manifestazione ludica e neanche allo sviluppo della coordinazione motoria. La primaria dipendenza dall'Altro porta il piccolo dell'uomo a vivere il primo tempo della sua vita in uno stadio narcisistico, uno stadio simile alle sfere di vetro che ci mostra Hieronymus Bosch nel Trittico delle delizie. Una sfera è richiusa su se stessa, si riflette su se stessa, c'è qualcosa di fisso, proprio come nel mito Narciso non riesce a staccarsi dal riflesso della sua immagine, anche se lo porterà alla morte.
Se sono preso da me stesso, l'altro non esiste o è un prolungamento di me stesso; si confonde l'altro con noi stessi. Confusione che porta fino alla sparizione dell'altro; ma la distruzione dell'altro è la distruzione di me stesso. L'alterità è in noi; in ognuno di noi vi è uno straniero, a partire dal primo grande Altro, la madre, che ci ha immesso nella società. Di questa prima alienazione all'Altro conserviamo un senso di rabbia. L'aggressività è correlata al narcisismo, ad una regressione a questi momenti arcaici contro un altro, fa parte della nostra vita dall'inizio dove in quelle sfere, così ben rappresentate da Bosch, o due corpi sono in una sorta di fusione o il corpo si presenta smembrato, preso da quelle immagini aggressive che caratterizzano i fantasmi dell'infante nel periodo anteriore all'acquisizione del linguaggio. È sempre la paura dell'altro che scatena la violenza.
Lo vediamo bene nel bambino piccolo quando, prima dei tre anni, incontra un suo pari e nel cercare una sua posizione sociale imita l'altro, cerca di sedurlo, gli si impone con un gioco; se l'altro cade, è lui che piange; se picchia, dice di essere picchiato. Non c'è ancora lo spazio di riconoscimento dell'altro; il bambino si riconosce come io identificandosi all'altro, proprio perché è a partire dall'Altro primario che può rappresentarsi la conoscenza del suo corpo.
Questa totale identificazione all'oggetto dell'Altro, a quanto l'altro ha detto, a come l'ha detto, la possiamo vedere nella depressione, quando il soggetto afferma "io non sono niente". Ogni gesto viene posto sotto uno sguardo che lo giudica e gli dice "Sì, fai bene questo" oppure "No, avresti potuto farlo meglio...". Se l'io non riesce a soddisfare questi ideali, può scivolare fuori dal campo del riconoscimento, perde la stima di sé e non riesce più a trovare un senso alla sua esistenza. Vediamo qui l'effetto paralizzante nel restare legati ai segni di riconoscimento del primo Altro, bisogna sempre rispondere all'Altro. C'è una mancanza di uno spazio di parola, di non aver avuto uno spazio di dialogo, assenza che rintracciamo anche nella rivendicazione estrema.
Nella rivendicazione vi è un'impossibilità di accettare la perdita che può portare il soggetto a mettersi in una posizione di vittimismo, a presentarsi come oggetto che fa pena per accattivarsi l'altro.
Nell'aggressività del sadico ritroviamo, invece, il rovescio di questa dinamica: fare male all'altro diventa una sorta di trofeo, si riduce il corpo dell'altro ad essere oggetto di scarto, lo vediamo bene nel bullismo, negli insulti, nello schernire.
In queste posizioni - depressiva, rivendicativa, aggressività sadica - la struttura narcisistica predomina spingendo ad una forte tensione aggressiva rivolta verso se stessi o verso l'altro.

L'operazione della cura psicoanalitica non è cambiare le cose, ma ordinarle in modo diverso, ordinarle per uno scorrimento più fluido. Ogni persona rappresenta un proprio singolare modo d'essere e può anelare alla propria indipendenza, ma non potrà mai essere libera, siamo tutti alienati dal linguaggio. Ogni lingua limita la nostra onnipotenza, l'illusione di essere e avere tutto che il bambino inizialmente vive, la limita in quanto ogni lingua presenta dei limiti; vi è sempre qualcosa che non si riesce a dire e non si riesce mai a dire in senso assoluto, totale, come vorrebbe la struttura della sfera. Veniamo frustrati dell'impossibilità di una completezza, dell'impossibilità di una verità totale, come dice Lacan la verità è sempre a metà, o per dirla con Freud: "Non esiste la verità al cento per cento, così come non esiste l'alcol al cento per cento".

Per uscire dall'onnipotenza immaginaria il bambino deve passare per questo lutto. Passare attraverso un limite che gli consenta d'introdurre una disparità; riconoscendo la sua impotenza potrà riconoscere l'altro come tale, riconoscendosi come soggetto con un proprio desiderio. Per non restare imprigionati nell'oggetto del desiderio dell'Altro, il bambino deve separarsi dalla madre entrando nella legge del linguaggio.
La legge del linguaggio, l'impossibilità di dire e controllare tutto, è incarnata dal padre, in quanto la relazione con il padre non nasce da un corpo a corpo, ma s'introduce con delle parole. Il padre la introduce in quanto lui stesso vi è sottomesso, si presenta limitato presentando dei limiti da accettare. Il padre può incarnare questo spazio a partire da come le sue parole vengono introdotte al bambino dal discorso della madre. Si tratta di uno spazio terzo che, se non è messo in funzione dal padre, si può presentare al bambino anche in altre forme, dove l'essenziale è che la madre non si identifichi con il suo ruolo di madre ma dia spazio anche al suo essere donna, che la sua attenzione non sia solo per il bambino ma si rivolga anche altrove. Non sostenendosi tutta sul bambino, la madre apre ad uno spazio di separazione, consente la messa in moto di un movimento che apre la sfera narcisistica, smuove il bambino dalla fissità dove tutto può divenire uguale, grigio, senza valore, noioso... Un movimento che possiamo ben cogliere nel processo metaforico; la possibilità di un limite, di qualcosa dell'ordine di un impossibile, consente di passare dall'essere l'oggetto dell'Altro ad essere soggetto.

Aiutare il bambino ad individuarsi come soggetto unico e singolare richiede ai genitori di essere loro stessi soggetti unici che investono il bambino senza esigerne un possesso, ossia devono rinunciare alla soddisfazione narcisistica da parte dei loro figli. L'altrove, la possibilità di una propria strada dev'essere l'oggetto a cui tendere e non l'uguale e il pensiero unico.
La metafora consente di trasfigurare l'oggetto, consente quel lavoro psichico che nella depressione, nel sadismo, nella rivendicazione viene perso. La parola metaforica consente di separare e unire senza fissare, senza restare in un luogo chiuso. Non è una semplice parola, ma una parola che richiede un lavoro psichico. Perché, come ci ricorda Freud, le parole se non sono prese in un cammino di elaborazione psichica, allora possono essere come dei sassi che vengono lanciati, come vediamo bene nella rivendicazione, negli insulti... Per non essere una parola definitiva, la parola dev'essere inserita in un cammino che ci porta dall'immediatezza alla mediazione. Si struttura uno spazio e un tempo dove non si è più sotto il dominio di un sapere assoluto, ma si entra nella scoperta, nella sorpresa, nella creatività metaforica della parola che ci permette di riconoscerci senza chiuderci in una fissità, così da poter incontrare l'altro nel dialogo rinunciando all'aggressività. Non si tratta di sradicare la violenza, che è qualcosa di strutturale nell'essere umano, ma di lavorarla, di poterla elaborare affinché non sia distruttiva. In ogni relazione umana vi è potenzialmente del conflitto che non va eluso ma trattato attraverso il lavoro psichico che possiamo fare con la parola.

La parola non è un filo continuo, presenta delle discontinuità, gira intorno ad un vuoto, ad una perdita strutturale, l'impossibilità di racchiudere in modo totale quanto nomina.
Rinunciando all'onnipotenza il bambino entra nel mondo della frustrazione, dove non è più tutto e non ha più tutto; entra nel mondo della parola, un mondo sempre in difetto, non costituito da un infinito continuo ma da una discontinuità poiché si confronta con una mancanza strutturale, l'impossibilità di dire, di controllare tutto; non c'è una certezza, ma un continuo lavoro di elaborazione psichica. Ce lo dice bene il poeta Eliot, che nel suo lavoro di scrittura si confronta proprio con quanto non è dicibile:

"Le parole si sforzano
Si fendono e talvolta si spezzano, sotto il peso,
Per la tensione incespicano, scivolano, si guastano,
Marciscono per imprecisione, non vogliono stare a posto,
Non vogliono star ferme
"1

Note
  1. "Words strain, Crack and sometimes breaks, under the burden, Under the tension, slip, slide, perish, Decay with imprecision, will not stay in place, Will not stay still"
Bibliografia
  • Eliot T.S., Quattro Quartetti (1943), Garzanti, Milano 1959
  • Ferenczi S., Il bambino mal accolto e la sua pulsione di morte (1929), in Opere, vol. 4, Raffaello Cortina, Milano 2002
  • Freud S., Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, vol.7, Boringhieri, Torino 1994
  • Freud S., Lutto e melanconia in Metapsicologia (1915), in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino 1994
  • Freud S., Il disagio della civiltà (1929), in Opere, vol.10, Boringhieri, Torino 1994
  • Klein, M., Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935), in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 2006
  • Lacan J., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'io (1949), in Scritti I, Einaudi, Torino 2002
  • Lacan J., L'aggressività in psicoanalisi (1948), in Scritti I, Einaudi, Torino 2002
  • Lacan J., Il Seminario. Libro III. Le Psicosi (1955-1956), Einaudi, Torino 1985
  • Roth P., Pastorale Americana (1997), Einaudi, Torino 2005
  • Spitz R., Ospitalismo (1946), in Rivista di Psicoanalisi, vol. 3, 1957
  • Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente (1965), Armando Editore, Roma 1994
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Commenti: 3
1 Gloria alle ore 09:27 del 04/07/2018

Trovo molto interessante e attuale il tema della 'elaborazione della violenza' insita nell'animo umano. Si dovrebbe sviluppare di più questo tema al fine di migliorare i rapporti interpersonali e sociali.

2 Flavia alle ore 17:01 del 05/07/2018

Trovo interessante il riferimento a Winnicott nel capitolo " Quello tra la madre e l'infante e' una relazione corpo a corpo" soprattutto quando descrive , per la precisione , quella chiamata da Winnicott " la preoccupazione materna primaria". Trovo interessante anche la parte successiva , in cui il bambino incorpora la voce di quell'altro di cui è' oggetto narcisistico cioè la voce della madre.

3 Erminia De Paola alle ore 23:22 del 05/07/2018

Mi sembra molto interessante la riflessione sulla metafora di cui va evidenziata non solo la natura espressiva ma anche concettuale, come struttura portante del pensiero umano, di costruzione del reale. Il bambino nel suo percoro evolutivo, nel rapporto con l'ambiente e con l'altro da sè, utilizza il noto per classificare l'ignoto.Nel caso di abusi sessuali, la metafora può falicilitare l'espressione di ricordi in quanto veicola le emozioni. Le immagini o i simboli rappresentano il reale (comportamenti e bisogni).Le parole descrivono una situazione o uno stato di animo. L'inconscio può essere paragonato ad un pittore che rappresenta con la metafora sia la quotodianità e sia la patologia (i sintomi) o un disagio personale.

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