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Il mio viaggio "familiare" attraverso il gioco delle foto

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Il mio viaggio "familiare" attraverso il gioco delle foto

L'articolo "Il mio viaggio "familiare" attraverso il gioco delle foto" parla di:

  • Psicoterapia familiare e genogramma fotografico
  • Abbandono di un figlio: adozione e origini
  • Bowlby e l'attaccamento "insicuro"
Psico-Pratika:
Numero 62 Anno 2011

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Articolo: 'Il mio viaggio "familiare" attraverso il gioco delle foto'

A cura di: Tamara Marchetti Autore HT
    INDICE: Il mio viaggio "familiare" attraverso il gioco delle foto
  • Il gioco delle fotografie
  • Il gioco delle foto con i nonni materni
  • Il gioco delle foto con la nonna Bianca
  • L'abbandono di un figlio
  • Nonna Bianca: dalla favola del "mondo di Bambù" alla realtà
  • La fragilità della nonna, Bowlby e l'attaccamento "insicuro"

Dei miei nonni ne ho conosciuti solo tre, i due materni e la nonna Bianca, mentre il nonno paterno venne investito da un auto delle mille miglia quando mio padre, secondogenito di due figli, aveva soli quattro anni.

Nipote unica sul versante materno, ho vissuto con questi nonni un legame molto forte, una sorta di secondi genitori, presenti ed accudenti.

Era poi, un'avventura d'altro sapore, trascorrere il tempo con la nonna Bianca, con lei vivevano, il fratello di mio padre, la moglie e i miei due cugini: Matteo e Martina, rispettivamente di quattro e tre anni, più grandi di me.
Dunque, già figlia unica ed inoltre nipote unica sul versante materno, l'asse paterno, mi aveva riservato questo privilegio, potermi confrontare sul piano delle alleanze e delle competizioni nell'ambito del familiare, con due esponenti del mio stesso piano generazionale, i mie cugini, appunto.

Infatti, sia nei giochi di ruolo ma anche nella realtà, io e i miei cugini, eravamo per alcuni aspetti uniti, fino a volte ad essere inseparabili, al contempo però, vivevamo delle gelosie fortissime rispetto alle attenzioni e agli affetti che la nonna dedicava a ciascuno.

Rispetto alla conoscenza della mia famiglia d'origine, posso dire di aver incontrato in "carne ed ossa" fino a due bisnonni (i genitori della mia nonna materna), per il resto, sono state acquisizioni attraverso i racconti dei nonni, con l'ausilio poi di un gioco che amavo: "il gioco delle foto".

Il gioco delle fotografie

In psicoterapia familiare, l'utilizzo delle foto rappresenta un valido strumento finalizzato a lavorare sul trigenerazionale, abbracciando cioè più generazioni che per ovvi motivi non possono essere presenti in carne ed ossa nel qui ed ora del setting terapeutico.

Il gioco delle foto o "genogramma fotografico" consente di lavorare con il/i paziente/i muovendosi su un doppio binario: sul sistema familiare e sul vissuto emozionale rievocato dall'immagine.

L'osservazione di una foto, o di una serie di foto, consente l'innescarsi di un processo che unifica mondo presente, ricordi e fantasie dell'osservatore; il racconto che accompagna e plasma l'osservazione rende la persona in grado di scoprire e afferrare aspetti della sua esistenza rimasti invisibili e informi fino a quel momento.

Le immagini scelte e portate dal paziente o dai pazienti in terapia, forniscono un valido spaccato della storia familiare a cui si appartiene, è possibile avvicinarsi a miti, regole e ruoli che nel tempo si sono conservati oppure sono andati scemando.

E' tipico di questi casi, vedere persone anche anziane che tenendo in mano le foto dei propri genitori, non solo si commuovano o tirano fuori rabbia per problemi che non si sono risolti con i congiunti, ma addirittura regredire, assumere cioè un atteggiamento che è quello dell'epoca, ovvero, dell'essere figlio, anziché genitore quale si è nel presente o addirittura nonni come nel caso del mio racconto...

Il gioco delle foto con i nonni materni

Il "gioco delle fotografie", metteva in evidenza un'altra sostanziale differenza tra la famiglia d'origine di mia madre e quella di mio padre.

Il versante paterno, oltre al rapporto con il gruppo dei pari, offriva un'altra particolare differenza rispetto alla famiglia d'origine di mia madre, una sorta di "quadro incompleto" delle origini, ma arriviamoci per gradi.

Chiedere ai nonni di mostrare le proprie foto, a partire da quelle della loro giovinezza, facendosi dare delucidazioni sui personaggi e sui luoghi immortalati nelle immagini, è un gioco che affascina tutti i bambini, i quali senza saperlo hanno un'opportunità d'incrementare la conoscenza delle proprie origini, sviluppando la propria appartenenza.

Ricordo foto in bianco e nero di piccolo formato, nelle foto dei nonni materni, insieme ai loro genitori ancora giovani e poi, i fratelli, 5 ne aveva mio nonno e 3 mia nonna.
Ricordo il nonno quando prendeva dal cassetto del comò la busta trasparente in cui erano contenute le numerose foto della sua giovinezza, amici, ex fidanzate, ma soprattutto la sua famiglia d'origine alla quale era molto legato.
Ogni volta mi raccontava una storia nuova, episodi di vita vissuti, anche questi erano ricordi lontani, ma ancora intensi, carichi di emozioni.

Di tanto in tanto, interveniva la nonna, prendendo del tempo dalle faccende che stava sbrigando, mentre con il nonno eravamo presi nella ricostruzione della loro storia in immagini e, insieme commentavamo le foto del loro fidanzamento e poi quelle tre, massimo quattro foto del matrimonio, dove in una mostravano le loro fedi in acciaio, tra il rammarico e l'ironia di non essersi potuti permettere le fedi annunziali d'oro!
Senza saperlo, in famiglia, durante la mia infanzia, mi stavo preparando ad un'anticipazione di quella che sarebbe poi stata la mia scelta professionale, lavorare con le famiglie sul loro vissuto e sulle loro storie, tra vicissitudini ed appartenenze.

Il gioco delle foto con la nonna Bianca

A proposito di appartenenza, con la nonna Bianca, il "gioco delle foto" partiva dalle immagini di mio padre e mio zio da piccoli e, quelle più remote, ritraevano lei ed il nonno da fidanzati.
Mancavano le foto con i genitori adottivi, dei quali si poteva solo parlare, ma senza conservarne una traccia visibile della loro esistenza.

Soltanto mio zio, di otto anni più grande di mio padre, aveva un seppur vago ricordo della madre adottiva della nonna, mentre il padre era morto molti anni prima.

Per mia nonna, la storia in immagini della sua infanzia, non era documentata da foto, ma da un trascorso di sofferenza protetta nella sua memoria e non solo.
Lei infatti, era rimasta per i primi 3 anni della sua vita in quello che all'epoca si chiamava orfanotrofio, chiuso verso la metà degli anni '80.
Mi raccontò di aver fatto diversi tentativi di ricerca per sapere chi fosse la sua mamma naturale, ma non riuscì a sapere nulla di concreto.
Certo è che questo rimase, per tutta la sua vita, un capitolo del quale non amava parlare, era piuttosto una storia privata che evadeva dai suoi racconti.
Era come se per lei fosse più semplice parlare della sua storia e della sua infanzia attraverso la fantasia, che noi nipoti avevamo soprannominato: "nel mondo di Bambù".

Lei infatti, era solita raccontarci favole su quella che era poi anche la sua storia, di bambini che non avevano dei genitori, che venivano abbandonati e poi per magie di vario tipo, la sfortuna, si trasformava in una vita bellissima e ricca di fortuna e, questi racconti avvenivano nel chiostro sito nel suo giardino di casa, sotto c'era spazio per la stesa del bucato e in estate lei era solita anche stirare in quel luogo che sapeva di magico e di sofferenza al tempo stesso.

Questi racconti, per molti anni non hanno mai avuto un'evoluzione nella condivisione della reale sofferenza che tanto aveva costernato la vita della nonna, a partire dall'abbandono dei genitori, alla morte del marito rimanendo con due figli piccoli da crescere.
Condividere significa svelare sentimenti, parlare delle paure mai superate, della sofferenza provata, della rabbia per un destino personale, scelto da altri e, soprattutto del desiderio di conoscere un'altra dimensione della propria appartenenza, quella genetica e biologica.

Questi aspetti, se condivisi, avrebbero ferito chi le aveva ridato il sorriso, ovvero i genitori adottivi, ma il rispetto stesso, impediva inconsapevolmente la libertà di amare senza paura chi l'aveva messa al mondo.
Nella sua crescita, una parte ignota della sua vita faceva da aureola intorno alla sua esistenza.

L'abbandono di un figlio

Tante e di diversa origine, sono state, nel corso dei secoli, le storie di abbandono nei confronti di un figlio.
L'inadeguatezza dei genitori, oppure l'abbandono come agito, hanno tutte come comune denominatore, la non capacità ad accettare quella relazione.

Da una parte, c'è un bambino che nasce da una relazione, dove i genitori, non saranno poi la sua famiglia, per entrare solo più tardi in una famiglia che avrà il compito di aiutarlo a crescere, come figlio, come persona.
Da un'altra parte, c'è una coppia che sta affrontando la delusione della difficoltà ad avere figli e, sta imparando a separarsi dal sogno della nascita di un figlio, per aprirsi ad accoglierne uno nato da altri.
L'adozione dunque, nasce da questo triplice stato di sofferenza, chi non ha le risorse di tenersi un figlio proprio, chi non le ha per metterlo al mondo e, chi esce da un contesto biologico per entrare in un altro che lo va a sostituire.

Questo passaggio segna in modo indelebile la vita dell'adottato, anche nel caso il più sereno e felice, le origini sono altrove e, prima o poi, inizierà il suo lungo viaggio alla ricerca di esse e di tante spiegazioni che verranno messe a segno in modo più o meno parziale.
E' come se, per la costruzione dell'identità personale, ogni giorno chi è stato adottato andasse alla ricerca di un pezzo di sé, come se il puzzle fosse infinitamente incompleto.

Ricchi sono i casi trattati in psicoterapia familiare sul disagio e disadattamento di famiglie con figli adottati, nella fattispecie, quando questi sono in età adolescenziale.
L'adolescenza infatti, è di per se una fase critica, dove viene messo in discussione il proprio modello familiare d'appartenenza, per affrontare una crescita personale autonoma e, tutto questo viene ulteriormente amplificato nei casi dell'adozione, dove la messa in crisi è totale.
Parti non chiare, spauracchi del passato che tornano in auge, tra storia di abbandono e sentori di non accettazione che riecheggiano da un passato tormentoso e indelebile nel corso delle diverse fasi evolutive.

Nonna Bianca: dalla favola del "mondo di Bambù" alla realtà

Tornando alla storia delle mie "origini familiari", inaspettatamente, dopo tanto tempo qualcosa cambiò.
Avevo 25 anni, quando un pomeriggio, la nonna mi telefonò per invitarmi a prendere un tè a casa sua.
Da pochi giorni era morto il mio nonno materno, Pietro e stavo soffrendo molto.
Sentivo che la nonna Bianca era vicina alla mia sofferenza e, al tempo stesso più distaccata dalla sofferenza che invece accomunava il mio nucleo familiare.

Quel suo invito con tè e pasticcini, aveva di nuovo il sapore dell'ambivalenza, da una parte il piacere di stare insieme, dall'altra si era creato il magico momento per uscire da un lungo "gioco", fatto di favole e metafore.
Mi era chiesto di crescere, da poco la mia laurea in psicologia e poi, la mancanza di quel nonno tanto importante nella mia vita, creava lo spazio per andare incontro ad un'altra realtà comunque delicata: la rivelazione del tassello mancante.

Perché proprio in quel momento?

La sua scelta di rivelarsi a me, forse perché dei tre nipoti, benché fossi la più giovane, ero quella maggiormente preparata a condividere aspetti delicati e di un certo spessore, soprattutto in un momento in cui era fertile il terreno per parlare di "saluti" da parte della generazione più anziana, quella appunto dei nonni, come se avesse sentito che era il momento giusto per rivelare il "grande segreto": le sue emozioni.

Di nuovo ci sedemmo nel chiostro di bambù e questa volta fui io ad accennare l'inizio della favola, poi lei intervenne dicendo:

"questa favola la scrissi quando avevo 15 anni, un modo infantile per parlare di me e, poiché riguarda la mia infanzia, la storia della mia nascita, trovai che la favola, rappresentasse il mio migliore ritratto autobiografico. Anche a voi tre nipoti piaceva molto ascoltare che ve la raccontassi e, ogni volta intorno a noi si creava un'atmosfera magica, ricordi?
Sono rimasta in orfanotrofio fino a tre anni e mezzo, ma sono stati anni lunghissimi e tanto sofferti. Ricordo la rigidità e la freddezza delle suore e la frase che ci ripetevano per farci stare buoni era: se sarete buoni, verranno le vostre mamme a prendervi. Io credevo di essere lì insieme a tutti gli altri perché eravamo bambini cattivi, per questo non meritavamo una famiglia, ma speravo che la mamma arrivasse veramente a prendermi. Ci speravo ogni giorno, poi, quel giorno arrivò e con lei c'era anche il papà. Quando i miei genitori adottivi mi portarono a casa, pensavo che fossero i miei veri genitori, poi, pian piano, mi hanno fatto capire che non era così.
Siamo stati molto bene insieme, loro mi volevano bene e anche io gliene volevo, ma il mio pensiero di sapere che da un'altra parte ci sarebbero stati i miei veri genitori, mi tormentava. Mi tormentava il fatto che non mi avessero mai cercato, soprattutto mia madre, lei lo sapeva di sicuro di avere una figlia. L'ho cercata tanto, anche con l'aiuto di persone che lavoravano all'orfanotrofio, ma non ho ottenuto nulla di certo. Oggi ho 79 anni e questa storia mi rende ancora molto fragile."
La fragilità della nonna, Bowlby e l'attaccamento "insicuro"

Il mito dunque, era la fragilità, che la nonna aveva sempre nascosto attraverso l'immagine di una donna forte, coraggiosa, in grado di crescere due figli, dopo essere rimasta vedova in giovanissima età, riuscendo persino a farsi una casa, tutto con le sue forze.

Anche con noi nipoti era così determinata, ci dimostrava il suo affetto, ma a modo suo, per come sapeva fare lei, era una donna rigida, non ricordo un abbraccio, una carezza, da parte sua, se ci prendeva in braccio, era solo quando ci facevamo male, cadendo nei nostri giochi sempre movimentati.

Solo a 79 anni, uno prima della sua morte, ha potuto esprimere la sua fragilità e sofferenza, anche quella di non aver avuto il coraggio di parlarne prima.
Un copione il suo, che nella teoria dell'attaccamento, rispecchia lo stile relazionale primario, quello che Bowlby ha definito attaccamento insicuro, scindendolo da quello sicuro, dove la mamma è presente vicino al bambino e attenta a rispondere in modo esaudiente alle sue necessità.
Per Bowlby (che studiò in modo empirico l'attaccamento del bambino alla figura materna nel periodo 0-3 anni), la "perdita", intesa come separazione prolungata dalla figura primaria di attaccamento, genera nel bambino conseguenze permanenti, a livello di insicurezza ed incapacità a gestire in modo adeguato le relazioni significative della propria vita, anche futura.

Nel caso di mio nonna, per lei, esprimere la propria fragilità, sottendeva una richiesta di protettività e questo, sulla base del suo stile di attaccamento, non poteva permetterselo.
Avrebbe dovuto mettere in discussione tutta la forza e la tenacia dimostrata nel farcela a sopravvivere senza la propria famiglia di origine e poi, nella crescita da sola di due figli.
La fragilità, l'aveva conservata dentro di sé.

Ora, era più chiaro capire perché con i miei cugini, chiamavamo la storia della nonna "nel mondo di bambù", un mondo misterioso e fragile al tempo stesso, al quale noi eravamo moto legati.

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Commenti: 2
1 Florence alle ore 21:01 del 16/05/2011

Mi è piaciuto molto questo articolo, soprattutto quello del gioco delle foto, come conoscenza di sè, e delle generazioni precedenti.

Avere la possibilità di nonni che raccontano e che regalano qualcosa ai propri nipoti, i senso positivo, è una dolce formzione.

Grazie Florence

2 Lucia alle ore 04:43 del 24/12/2011

Articolo interessantissimo ( come tutti i tuoi) scritto in modo chiaro, avvincente. Mi ha fatto tanto pensare!

Ognuno di noi ha foto da riguardare e rivivere insieme ai nonni. Il nostro passato impolverato, risorge sempre.

Ti auguro ancora buon natale!

Lucia ( Girasole ricordi?)

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