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Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento

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Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento
G. e l'incapacità di vivere il proprio spazio

L'articolo "Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento" parla di:

  • La presa in carico: dai sintomi alla storia personale
  • G. "letto" attraverso DSM, Millon Test ed Enneagramma
  • L'utilità della diagnosi per orientare le scelte terapeutiche
Psico-Pratika:
Numero 88 Anno 2012

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Articolo: 'Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento
G. e l'incapacità di vivere il proprio spazio'

A cura di: Valentina Sbrescia
    INDICE: Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento
  • Introduzione
  • Il primo incontro con G.
  • Storia clinica
  • La famiglia
  • Autopercezione
  • "Definizione" diagnostica: il mio punto di vista
  • G. e il test Millon
  • Definire la sofferenza di G. in base al DSM IV
  • La personalità di G. nel sistema Enneagramma
    • Invidia
    • Scadente immagine di sé
    • Sintonizzarsi sulla sofferenza
    • Andare verso
    • Accudimento
    • Emotività
    • Arroganza competitiva
    • La raffinatezza
    • Interessi artistici
    • Super-Io forte
  • I sottotipi istintuali del tipo Quattro
  • Conclusioni
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
«... infatti la comprensione del terapeuta, in fondo, non conta e tutto dipende invece dal fatto che comprenda il paziente. L'intendere dovrebbe quindi essere piuttosto un "intendersi", frutto di riflessione comune. [...]
Non si tratta infatti di istruire il paziente intorno a una verità, ma di far sì che il paziente stesso pervenga a quella verità: non si tratta di rivolgersi alla sua mente, ma di conquistarne il cuore: ciò incide più profondamente e agisce con maggiore efficacia».
("L'applicabilità pratica dell'analisi dei sogni", C.G. Jung, pag. 238)
Introduzione

In questo articolo vi racconterò di G., un mio paziente affetto da disturbo Borderline di Personalità.
Vi parlerò in particolare di cosa questa patologia ha significato per lui e del modo in cui ha vissuto la sua vita in compagnia di questo disturbo, in altre parole dei suoi sintomi e di come questi abbiano interferito nella quotidianità e nei suoi rapporti personali. Cercherò anche di raccontarvi in che modo, a partire dalle difficoltà da lui espresse, sono arrivata alla diagnosi di DBP (Disturbo Borderline di Personalità), utilizzando in primo luogo l'osservazione clinica ed empatica e il test di Millon come controllo.
Ho infine usato, come riferimento diagnostico, il DSM IV e l'Enneagramma, poiché quest'ultimo fornisce anche un'indicazione prognostica e di trattamento del disturbo.

Il primo incontro con G.

Ormai qualche tempo fa, si rivolse al mio studio professionale un ragazzo che credo non dimenticherò mai. Si chiamava G., aveva 27 anni ed era iscritto alla Facoltà di Lettere dell'Università cittadina.

Nel momento in cui lo conobbi credo che rappresentassi per lui l'ultimo tentativo, e quindi l'ultima speranza per "svegliarsi" dal sonno popolato da incubi che lo imprigionava e cominciare finalmente a vivere.

Il giorno in cui trovò il coraggio di telefonarmi, mi fece immediatamente l'elenco dei sintomi che lo affliggevano, motivando con questi la necessità di una consulenza. Tuttavia se ne pentì subito dopo e, terrorizzato dal mio consenso all'incontro, cercò di tirarsi indietro e di disdire l'appuntamento appena preso.

Al primo appuntamento G. mi sembrò un ragazzo alto e robusto; si presentò con abiti scuri, con capelli e barba neri e lunghi, in generale piuttosto trasandato nell'aspetto. Appena entrato, si spostò dall'ingresso allo studio con passo incerto e pesante.

In realtà a prima vista la sua stazza e il suo aspetto cupo mi intimorirono: se solo avesse voluto avrebbe potuto facilmente farmi del male.

Dopo circa un anno di terapia mi rivelò, sorprendentemente, come visse lui quel primo incontro: quando chiusi la porta della stanza dietro di lui, ebbe la sensazione che io non fossi impaurita e questo lo fece sentire più tranquillo a sua volta.

Entrato in studio, il modo in cui G. si sedette sulla poltrona, mi colpì invece in senso opposto.

Si sedette in un modo molto particolare: incastrò le mani sotto le ginocchia afferrò le caviglie della gamba opposta e incrociò i piedi mettendone uno sopra l'altro, e poggiò quello più in basso di traverso sul pavimento.

Questa posizione ebbe immediatamente due effetti su di me: in primo luogo lo vidi schiacciarsi completamente, dandomi l'impressione - appunto opposta alla precedente - di essere molto piccolo e molto indifeso e che tentasse di voler di occupare il minor spazio possibile.

In secondo luogo ebbi la sensazione che G. non avesse alcun contatto né con il pavimento né con la poltrona su cui era seduto, poiché non sfiorava neanche lo schienale o i braccioli. Tanto meno era in contatto con me: teneva la testa bassa evitando di guardarmi.

In sintesi la seconda impressione che ebbi di lui fu quella di un bimbo chiuso in una bolla, senza mani e senza gambe, e che non ha un suo posto da abitare nel mondo.

Durante il colloquio G. mi raccontò nuovamente i suoi sintomi:

  • la mancanza assoluta di sonno per giorni e giorni, dovuta alla paura di dormire e sognare così scene sanguinose, truculente e spaventose, o piuttosto il sonno letargico prolungato;
  • le frequenti crisi di panico dopo le quali si sentiva senza forze;
  • l'incapacità di stare in mezzo alla gente, la difficoltà anche solo a prendere un autobus: non aveva la patente e preferiva muoversi a piedi negli orari in cui era meno probabile incontrare qualcuno per la strada;
  • la forte difficoltà di concentrazione e, di conseguenza, nello studio.

Quest'ultimo sembrava essere il problema più urgente da risolvere.
In quanto studente fuori sede, G. viveva in una stanza in affitto e condivideva la casa con due amici con i quali, tutto sommato, si sentiva a proprio agio.

Tutte le sue spese venivano sostenute dalla famiglia.
La non prosecuzione negli studi avrebbe significato dunque dover tornare al paese di provenienza, dalla sua famiglia. Avrebbe dovuto cioè abbandonare la sua stanza in affitto, l'unico posto che sentiva essere veramente suo.

Fu questo il motivo per cui decise di contattarmi.

Alla fine del primo colloquio gli comunicai la mia percezione circa quella paura che sentivo in lui, la quale non gli permetteva nemmeno di respirare o di muoversi e che, a quanto pareva, lo immobilizzava in una posizione davvero scomoda da sostenere a lungo.

Aggiunsi che conoscevo bene quel tipo di paura in quanto ne avevo fatto esperienza diretta nella mia vita. Gli chiesi quale fosse il suo spazio in quel momento e se si sentisse a suo agio nel mio studio.

G. reagì raggomitolandosi di più, ma forse fu proprio lo sguardo sereno e privo di giudizio che percepì in me a permettergli di fidarsi abbastanza da ritornare.

Storia clinica

I sintomi erano cominciati circa otto anni prima del nostro incontro.
Negli ultimi tre anni si erano intensificati al punto che aveva perso 23 kg di peso.

Negli anni si era rivolto a più medici. Il Medico di famiglia in primo luogo, e poi Neurologi e Psichiatri, con il risultato di vedersi prescrivere farmaci di ogni genere: dagli ansiolitici agli antidepressivi, agli antipsicotici, alcuni addirittura somministrabili per via endovenosa.

G. però non seguiva con attenzione le indicazioni terapeutiche, anzi addirittura faceva contemporaneamente abuso di alcolici, oppure sospendeva improvvisamente e per proprio conto l'assunzione di alcuni o di tutti i farmaci, a causa di non meglio specificati "problemi comportamentali", intendendo con questo la sua difficoltà caratteriale ad attenersi alle indicazioni altrui.

Sembra che questi "problemi comportamentali" siano iniziati molto tempo prima.
Mi raccontò infatti che i primi ricordi risalivano all'età di 5 anni, e che già allora capitava che avesse dei momenti di "assenza" da cui si riprendeva come se si risvegliasse dal sonno, e senza avere alcuna coscienza di quel che era intercorso nel frattempo.

Molte volte si trattava di episodi in cui perdeva il controllo e aveva un comportamento violento verso qualcuno o qualcosa.

G. ricorda che spesso da bambino gli veniva ricordato dai genitori di fare «attenzione ad ogni cosa che poteva capitare», ma soprattutto gli si chiedeva di dosare la sua forza, inoltre la rabbia in famiglia veniva tollerata solo a piccole dosi.

Ciò che però G. ricordò con maggiore intensità fu la richiesta, da parte dei genitori, di non infrangere i dogmi religiosi, di «non avere pensieri fuori dalla mentalità della comunità che circondava la famiglia, anche se non dovevo fare come gli altri», ricevendo così messaggi contraddittori.

Una figura protettiva nella sua infanzia fu sicuramente la nonna paterna, a casa della quale la famiglia visse fino a quando G. ebbe due anni; dopo il trasferimento familiare, la nonna visse da sola, il nonno morì prima della nascita di G.

In una seduta G. mi raccontò di aver subito, all'età di 13 anni, un tentativo di rapimento. Ricordò come, seppure spaventato, riuscì a mordere la mano che gli tappava la bocca e lo bloccava, si liberò e corse a nascondersi nel giardino della nonna.

Dopo diverse ore il padre lo trovò e dapprima lo sgridò per non essere tornato a casa subito dopo la scuola. Successivamente egli denunciò il tentato reato ai Carabinieri e portò G. dal prete per una benedizione. Purtroppo nessuno nella sua comunità gli credette, e anzi fu al centro delle chiacchiere del paese per un po' di tempo.

Da quel momento in poi G. ebbe la sensazione che nessuno potesse mai credere alle sue parole, e prese allora l'abitudine di dire la verità su di sé mascherandola da bugia, da scherzo, in modo da fornire un alibi a chi lo ascolta e a se stesso.

In altre parole egli crede che, con l'uso della dissimulazione, possa riuscire a difendersi dal timore di non essere creduto dagli altri e, allo stesso tempo, possa non credere nemmeno lui, fino in fondo, a ciò che dice.

Per ben due volte G. tentò il suicidio.

Nel 2001 per impiccagione a casa di un'amica, conosciuta l'estate precedente nel campeggio in cui lavora da anni come guardiano notturno (l'unico lavoro che riesce a fare poiché tanto non dorme), che riuscì a sventare il tentativo.

Nel 2006 lo tentò nuovamente con il gas a casa di un amico.
Anche in questo caso, l'amico si accorse di ciò che G. stava tentando di fare e intervenne.

Al momento della richiesta d'aiuto G. aveva l'abitudine di farsi dei tagli sulle braccia nei momenti di maggiore sconforto: «per vedere cosa c'è dentro e per sentire delle sensazioni, anche se dolorose».

Devo ammettere che il quadro clinico nel suo complesso mi spaventò notevolmente: mi sentii spaventata per la pericolosità degli agìti comportamentali rispetto all'incolumità di G. stesso e verso le persone che dovessero trovarglisi intorno.

A quel punto non ero più preoccupata per la mia incolumità: probabilmente, senza nessuna prova a favore, sentivo che la sua aggressività - sicuramente intensa anche se faticosamente controllata - non era rivolta verso di me; nei miei confronti percepivo soprattutto una richiesta di comprensione umana oltre che di aiuto.

Mi chiedevo se sarei stata in grado di mettere ordine in mezzo a quel groviglio di incubi, sangue e rabbia, in modo da creare uno spazio vitale per il "ragazzino nella bolla" che avevo conosciuto.

Mi chiedevo se sarei stata in grado di insegnare a un bambino di circa 7 o 9 anni a diventare un ragazzo di 27. Fu proprio il suo aspetto di paura e fragilità a convincermi di potercela fare.

La famiglia

G. non si trovava a suo agio in famiglia, cercava piuttosto di tenersene a distanza in quanto non se ne sentiva parte.

Il padre, veterinario in paese, era un uomo dai valori tradizionali, descritto come egocentrico e bigotto, intollerante verso quanto non condivideva o non capiva.

Parlava sempre di sé e non ascoltava; era comunque affettuoso a suo modo, una brava persona, uno che si era costruito da sé quello che aveva e che lavorava molto per mantenerlo.

Era un uomo che pretendeva molto dai figli e quindi difficilmente esprimeva apprezzamento nei loro confronti, quello che più si avvicinava a un complimento probabilmente era la frase: «Anch'io farei così».

In particolare criticava il figlio G. ricordandogli che alla sua età (27 anni) avrebbe già dovuto capire cosa voleva, che non era più un ragazzino e che quindi certi sogni avrebbe già dovuto abbandonarli per mettersi a lavorare sul serio.
Oppure con un semplice "suono gutturale" esprimeva tutta la sua svalutazione.

G. riportava come il padre desiderasse che lui fosse come in realtà non era: voleva che si tagliasse i capelli e si vestisse elegantemente.

«È come se se volesse che fossi una persona che non gli faccia fare brutta figura in pubblico».

Infine G. descrisse il padre come paranoico, in quanto era convinto che realmente gli alieni fossero presenti sulla terra e si confondessero con gli esseri umani, e quindi si teneva aggiornato sulle ricerche in questo campo.

La madre, casalinga, venne descritta come una teledipendente.
Era comprensiva ma anche lei era rimasta ancorata a ideologie passate che G. non condivideva più e che riteneva anacronistiche.

A volte capitava che parlasse da sola guardando le telenovelas, in ogni caso le guardava anche quando G. cercava di parlarle.

Anche lei era una brava persona, che lavorava tanto, e che era solita nascondere il suo dolore per i piccoli malanni o per la perdita dei cari. Rideva spesso, ma anche lei aveva difficoltà a fare complimenti o comunque a rinforzare positivamente i figli sostenendoli.

Quando doveva fare qualche rimprovero lo mascherava con una battuta di spirito.
L'avvertimento che più spesso gli rivolgeva era che non ci si poteva aspettare niente dalla vita, poiché cambia in continuazione e quindi anche lui presto avrebbe cambiato modo di vedere le cose.

Credo che in questo modo la madre volesse rassicurare G. rispetto alla possibilità che la crescita avrebbe portato con sé anche una maturazione personale e quindi anche la fine di tante delle sue ansie attuali.

Tuttavia queste raccomandazioni ebbero l'effetto di svilire da un lato i sentimenti di G., che trovava poca considerazione per le sue preoccupazioni, dall'altro di disorientarlo suggerendogli di non poter fare affidamento su niente e su nessuno, perché nessun punto di riferimento è per sempre.

G. non sentiva una forte aspettativa da parte della madre.

«Credo voglia soltanto che faccia quello che mi piace e stia buono».

G. aveva altri due fratelli più piccoli: con il medio, S., non aveva un buon rapporto, anzi erano spesso in conflitto.

Probabilmente S. soffriva di qualche squilibrio mentale, come ho potuto desumere dai racconti di G., ma in casa era vissuto come quello "normale" e quindi veniva richiesto a G. di trattarlo con amore, e magari di essere un po' come lui.

Con il piccolo, M., invece il rapporto era buono anche se non particolarmente intimo.
G. sentiva la responsabilità del ruolo di fratello maggiore di M. e controllava a distanza la crescita del fratellino, che pare lo imitasse anche nel modo di vestire, riconoscendo in lui un modello.

Autopercezione

G. aveva di sé l'immagine di una persona «riflessiva, misantropa nella maggior parte delle occasioni, demofobica e sognatrice».

Credeva di non avere una personalità che lo definisse e quindi capitava spesso che andasse "controcorrente", che agisse comportamenti ribelli, con lo scopo di costruirsene una per opposizione a quella altrui in cui potesse identificarsi; oppure che mettesse in scena quella che lui definiva la «vita da mulino bianco», ossia un'immagine di sé a completa "fruizione" degli altri, in cui lui era una persona allegra, di compagnia, che amava ubriacarsi con gli amici e che sapeva sempre come divertirli.

Questa immagine aveva lo scopo anche di impedire agli altri di vedere la sua malinconia e il fatto che viveva di ricordi, che si sentiva solo ovunque:

«Amo profondamente amici, familiari e partner. Nello stesso modo provo indifferenza e irritazione verso le stesse persone».

Non amava questa sua parte che fingeva che molte cose fossero senza importanza, mentre invece ci pensava continuamente.

In qualche modo restava lui stesso vittima della propria strategia di dissimulazione: ciò che esplicitamente svalutava, per difendersi dall'invadenza dei familiari e delle persone vicine, era invece il centro delle sue preoccupazioni.

In questo modo gli era impossibile elaborarle e così rimanevano incastrate dentro, in un gomitolo inestricabile che non faceva altro che aumentare a dismisura la sua ansia e la sua frustrazione.

Non amava i suoi sbalzi di umore e non amava il suo corpo.
Ciò che amava di sé era la sua voce scura e intensa e la sua creatività. G. amava scrivere racconti e il suo personaggio preferito era il suo alter ego, J.P., una sorta di eroe negativo, un «morto immortale».

Nei suoi scritti era facile individuare il senso, ambivalente in G., di non appartenenza al mondo e, contemporaneamente, di presenza in un mondo non suo, che posso definire solo come il senso di non avere uno spazio che si possa sentire proprio.

Allo stesso modo era evidente il senso della presenza dentro di lui di un'istanza potenzialmente distruttiva - almeno nella misura in cui veniva misconosciuta - capace di terrorizzare anche gli amici di sempre.

La percezione di G. rispetto a se stesso cambiò profondamente verso la fine dei 18 anni. Quando ancora era bambino G. era felice, pensava che la vita fosse piena di opportunità e che il presente lo avrebbe aiutato a viverla in futuro in modo stupendo.

Insomma «la vita andava abbracciata più che affrontata».

Da adulto invece egli riteneva ormai che fosse «triste, troppo breve e troppo lunga, veloce e lenta. È pesante e colma di cose inutili. Forse anche la vita è inutile. È un gioco di cui non si conoscono le regole, e quando si crede di riuscire a impararne qualcuna, ci si accorge che è un gioco completamente diverso».

Il punto di svolta, quello che determinò il cambiamento di visione del mondo - che demarcò quindi un prima e un dopo - fu la relazione con una ragazza, Silvia.

Quando G. aveva 17 anni intrattenne una relazione con Silvia che durò un anno e qualche mese. Lei viveva a Roma, era una ragazza un po' sopra le righe, con i capelli verdi, ed era sempre allegra.

«Non avevamo bisogno di parole», ricorda G., in quanto il legame era quasi simbiotico, nel senso che non era necessario nemmeno parlare per comunicare e capirsi.

Il ricordo più bello di lei era quando in una notte piovosa Silvia, con le cuffie nelle orecchie, ballò nuda davanti alla finestra della sua stanza da letto.

Quell'anno G. aveva risparmiato i suoi soldi per poterle regalare un'acquamarina per Natale.

Un giorno, poco prima della ricorrenza, ricevette una telefonata da Roma dal fratello di Silvia: lo chiamava per comunicargli che Silvia era morta in un incidente stradale.

Da quel momento tutto è cambiato. È morta l'illusione di una vita piacevole e di un rapporto intimo che fosse nutriente e "facile".

Dopo di allora G. intrattenne relazioni fallimentari in cui non riusciva mai a raggiungere una vera intimità, a volte nemmeno fisica.

Le sensazioni che G. provava più spesso, dopo la perdita di Silvia, erano mal di testa e spossatezza, accompagnati da un senso di abbattimento, frustrazione, tristezza e senso di incapacità, di vuoto e di inutilità.

Solitamente questo succedeva di notte, quando non c'era nessuno e G. non voleva nessuno vicino: si rinchiudeva nella stanza vuota e in silenzio, oppure camminava da solo ascoltando musica con le cuffie, sempre di notte, oppure al mattino prima dell'alba.

Spesso, in quel periodo, aveva voglia di scappare, sia fisicamente che mentalmente.
Nelle interazioni con le persone si sentiva insicuro:

«Dopo aver interagito con una persona mi chiedo se avrò detto la cosa giusta, ho paura di essere sembrato una persona sgradevole e avere svelato troppo di me».

Per il futuro non nutriva troppe speranze di cambiamento.
Pensava che sarebbe morto di «morte violenta, voluta o no», ma sperava comunque che fosse in un modo «fuori dall'ordinario».

Nel momento in cui è arrivato in terapia, dopo anni da quell'evento, dalla vita desiderava «trovare il modo di esprimermi e buttare fuori quello che ho dentro. Voglio fare del bene ed essere gratificato».

Inoltre, se avesse potuto cambiare qualcosa di sé avrebbe eliminato soprattutto i ricordi legati a Silvia, che anche allora lo facevano soffrire, e poi l'insicurezza e la paura di fare le cose: viveva come un problema la difficoltà di volere intensamente qualche cosa, e quindi la mancanza di motivazione che non gli consentiva di lottare per ottenere qualcosa per lui importante.

"Definizione" diagnostica: il mio punto di vista

Voglio precisare, a questo punto della trattazione, la mia generale sfiducia verso una classificazione dei disturbi mentali che tenda esclusivamente a etichettare la persona cui si riferisce.

Credo che spesso questa sia un'esigenza professionale, il cui scopo è di circoscrivere l'entità del "problema" che troviamo nella persona seduta di fronte a noi. Credo serva più che altro a calmare la nostra ansia da prestazione.

Per contro ritengo fondamentale, ai fini della cura, non ridurre una persona a una diagnosi che, nella migliore delle ipotesi, mette in evidenza solo una parte della sua personalità e della sua visione del mondo.

Ritengo invece di poter utilizzare proficuamente una categoria diagnostica nella misura in cui mi consente di individuare una via di sviluppo percorribile per il futuro.

È solo con questa prospettiva che confronto la storia di vita e la storia emotiva di G. con alcuni dei maggiori sistemi di classificazione della personalità e dei suoi disturbi.

G. e il test Millon

In base all'osservazione e alla somministrazione del test Millon-III (Millon Clinical Multiaxial Inventory - III) si può ipotizzare che G. sia affetto da Disturbo Borderline di Personalità.

Intendo con questo tutta quella serie di sintomi che la letteratura psichiatrica definisce con tale nome.

Le persone affette da questo disturbo, così come G., presentano una sensibilità estremamente spiccata e un'emotività molto vivida.

Queste caratteristiche possono essere causa di enormi sofferenze, ma possono anche rappresentare risorse da utilizzare in modo costruttivo.

Così lo Psicologo americano Theodore Millon, autore del test, descrive i Borderline:

«Non solo, per mantenere la loro serenità, hanno bisogno di protezione e di rassicurazione, ma diventano esageratamente vulnerabili al venir meno di queste fonti esterne di sostegno. L'isolamento o la solitudine possono essere terrificanti non solo perché ai borderline manca un senso di sé innato, ma perché mancano del necessario, delle capacità e dei mezzi per intraprendere un'azione matura, decisa e indipendente. Incapaci di provvedere a se stessi, non solo essi paventano la possibile perdita, ma spesso la anticipano, "vedendola" accadere, quando, in realtà, non è vero. Inoltre, dal momento che gran parte dei borderline manca di autostima, gli è difficile credere che coloro da cui dipendono possano pensare bene di loro».
(Millon T., Disorders of Personality, in C. Naranjo, "Carattere e Nevrosi")

All'interno di un siffatto quadro di personalità, si capisce bene come le persone borderline vivano nel terrore della svalutazione e dell'abbandono.

Hanno un equilibrio instabile e non riescono da soli a sviluppare i mezzi per una vita pienamente autonoma: tendono così a creare legami di dipendenza, ma anche fortemente ambivalenti, con le persone importanti della loro vita, sempre immaginando la possibilità di un abbandono come inevitabile. Questo li rende costantemente nervosi e inclini all'ansia di separazione.

Nel momento in cui alcuni eventi della vita risvegliano le paure di abbandono, le persone con personalità borderline possono precipitarsi verso tentativi di compensazione come l'idealizzazione e l'altruismo, oppure verso gesti di autodistruzione che concentrano su di sé l'attenzione altrui, oppure ancora comportamenti o atteggiamenti particolarmente arroganti, strafottenti e impulsivi o rabbiosi.

Questi aspetti sono ben visibili anche in G., come sopra descritto.
Inoltre G. utilizza il sacrificio di sé come mezzo per assicurarsi il contatto continuo con gli altri, ponendosi indirettamente come modello positivo di cortesia, gentilezza e cura verso il prossimo. In questo modo gli altri sono tenuti a contraccambiarlo.

Millon specifica, rispetto all'aspetto della malattia che rischia spesso di essere confuso con la depressione, che le due patologie - per quanto si assomiglino a livello formale - partono da due atteggiamenti completamente differenti:

    La persona depressa non ha in sé le forze per poter cambiare la propria situazione.

    Il borderline, invece, sfrutta i sintomi depressivi come arma per agire la propria rabbia, così da colpire con i sensi di colpa chi gli sta intorno e si preoccupa per lui.
    Inoltre, per lo stesso scopo manipolatorio, mette in scena i sintomi esasperandoli addirittura, perché abbiano una maggiore visibilità e un maggiore effetto sugli spettatori.
«L'angoscia implorante, la disperazione e la rassegnazione manifestate dai borderline servono ad allentare la tensione e a esternare il tormento che essi sentono dentro di sé. Tuttavia per alcuni, un letargo depressivo e un comportamento scontroso sono prima di tutto modi di esprimere la rabbia.
La depressione serve come mezzo per frustrare e ricattare coloro che li hanno "respinti'" o "hanno chiesto troppo". In collera, facendo sembrare la propria situazione peggiore di quella che è, e lamentando la propria impotenza, riescono a evitare la responsabilità, scaricano sugli altri ulteriori fardelli, e così facendo non solo costringono la famiglia a prendersi cura di loro, ma a farlo soffrendo e sentendosi in colpa».
(Millon T., Disorders of Personality, in C. Naranjo, "Carattere e Nevrosi")

Anche questa analisi sembra rispecchiare con precisione parte della sintomatologia lamentata da G.

Mi riferisco, per esempio, ai suoi atti autolesivi, al suo aspetto trasandato e cupo e all'esasperazione della sua disperazione che, per quanto sinceramente sentiti, rientrano comunque nell'armamentario manipolatorio di cui dispone a "piacimento".

Definire la sofferenza di G. in base al DSM IV

Secondo il DSM IV, per DBP (Disturbo Borderline di Personalità) si intende una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé e dell'umore, associate a una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti.

Per porre la diagnosi di DBP occorre che tra i nove criteri elencati ne vengano soddisfatti almeno cinque. Questi criteri sono:

  1. Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono.
    A causa della loro vulnerabilità, i soggetti borderline hanno un bisogno compulsivo dell'aiuto e del sostegno altrui. Per questo motivo la sola idea di interrompere un rapporto importante, da cui sono dipendenti, genera in loro uno stato di angoscia profonda. Per evitarlo sono in grado di mettere in atto comportamenti disperati.
    Purtroppo spesso questi comportamenti finiscono con il danneggiare la relazione.
  2. Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall'alternanza tra estremi di iperidealizzazione e svalutazione.
    Le relazioni affettive hanno un elevato carico di investimento emotivo, che porta i soggetti borderline a idealizzare eccessivamente il partner, da cui infine dipendono. Allo stesso tempo ricercano continuamente segnali in grado di infrangere questa idealizzazione. Ciò li porta a passare velocemente da una ipervalutazione a una totale svalutazione rispetto all'oggetto d'amore.
    Cambia completamente e improvvisamente la visione del mondo e delle persone.
    Di conseguenza si determina un comportamento estremamente contraddittorio e oscillante tra due estremi autoescludentisi l'uno con l'altro.

    G. stesso esprime questo criterio dando molta importanza a quello che gli altri credono di lui, e allo stesso tempo chiudendosi in un isolamento in cui non lascia entrare nessuno. Intrattiene poche relazioni, e quelle che ha sono vissute come intense. Sebbene non si impegni particolarmente nella loro cura, sente che perderle sarebbe per lui doloroso.

    A proposito di una discussione avuta con un'amica G. riporta: «preferirei tagliarmi un braccio più che perdere la sua amicizia!».
    Per lui familiari e amici sono le persone a cui tiene di più ma allo stesso tempo - come riportato sopra - prova per loro i peggiori sentimenti, sentendosi comunque sempre solo.
  3. Alterazione dell'identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili.
    In corrispondenza dei comportamenti contraddittori sopra descritti, le persone affette da DBP hanno un'immagine di sé altrettanto contraddittoria e oscillante.
    Manca cioè una visione unitaria e sufficientemente stabile della propria identità, determinando quella che lo Psicoanalista Otto Kernberg chiama "diffusione dell'identità".

    Come modalità compensatoria rispetto a questa instabilità, alcune persone si uniscono a gruppi con forte carisma (politici, estremisti etc.), mentre altre hanno una forte difficoltà nello scegliere un lavoro o stabilire delle preferenze definite e stabili rispetto alla politica, al comportamento sessuale, alle amicizie.

    G. infatti lascia ad altri la responsabilità di definirlo in quanto persona:
    «Vorrei tutto e subito, ma senza fare niente. Spesso vado controcorrente per costruire una personalità che credo di non avere, e per lo stesso motivo a volte aderisco ad opinioni che non mi rappresentano».
  4. Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate.
    L'instabilità nei comportamenti e nell'immagine di sé implica la perdita di controllo in svariati ambiti. La vita delle persone affette da DBP è quindi spesso caotica e vengono messi in atto comportamenti pericolosi e impulsivi allo scopo di acquisire una sufficiente stabilità.

    Come già specificato, nella sua storia G. ha fatto abuso di medicinali, di bevande alcoliche. Quando si innamora, all'improvviso e intensamente, di ragazze appena conosciute, intrattiene rapporti sessuali non protetti e anche poco soddisfacenti; ultimamente è capitato più volte che non riuscisse a concludere l'atto sessuale.
  5. Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante.
    Capita frequentemente di osservare comportamenti suicidari o autolesivi.
    I tentativi di suicidio sono riscontrabili anche in altre patologie psichiatriche, mentre i comportamenti autolesivi sono caratteristici del DBP, con condotte tipiche di tagli superficiali cutanei o ustioni.

    Dell'abitudine di G. a ferirsi e dei suoi tentativi di suicidio abbiamo già discusso.
  6. Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell'umore.
    Come descritto ai punti 1. e 2., le persone affette da DBP sono combattute tra due bisogni estremi: il bisogno di dipendere dagli altri e sentirsene protetti, e il bisogno di difendersi da un mondo percepito come pericoloso e pieno di minacce.

    L'oscillazione continua tra questi due estremi, senza mai trovare un compromesso tra loro che permetta di rilassarsi e di trovare una certa stabilità, determina una profonda instabilità affettiva e relazioni personali disturbate.

    In queste persone convivono sentimenti ed emozioni diametralmente opposti tra loro e patologicamente dipendenti dal contesto esterno, che chiaramente è in continuo mutamento.
  7. Sentimenti cronici di vuoto.
    Anche questo, come il precedente, è un sintomo tipico del DBP, perfino quando viene taciuto dal soggetto che non trova le parole per poterlo esprimere.
    I sentimenti di vuoto sono assolutamente cronici e angoscianti, derivano da una mancata strutturazione della personalità e non dalla semplice noia o mancanza di stimoli interessanti.
    A volte questo "vuoto" fa riferimento addirittura a sentimenti di depersonalizzazione o derealizzazione. Nel tentativo di riempire il vuoto interno è possibile che vengano agìti dei comportamenti eccessivi come l'abbuffarsi, il tagliarsi o il cercare emozioni estreme.

    Spesso G. si lamenta della noia delle sue giornate, quando sente che non esiste qualcosa per cui valga la pena di spendersi: non esiste niente al mondo che lui desideri al punto da lottare per ottenerla.

    Durante quelle che lui chiama "crisi di panico", quando si rinchiude nella stanza con i suoi ricordi dolorosi e le sue lacrime, quello che sperimenta è un senso di vuoto e di paura tali da non poter essere tollerati.
    Sono emozioni laceranti che lasciano solo un senso di morte dopo il loro passaggio. Per cercare di porvi termine sposta allora l'attenzione su lacerazioni fisiche auto-inflitte.

    Il vuoto più grande nella vita di G. rimane comunque la perdita di Silvia, che in qualche modo era in grado di fornire il contenimento necessario al mondo interiore di G.
    Senza di lei, forse venuta a mancare proprio nel momento di esordio della patologia, G. è senza confini, e qualunque esperienza viene vissuta come potenzialmente disgregante.
  8. Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia, per esempio frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici.
    Poiché tutte le emozioni vengono vissute in modo esasperato, anche la rabbia è espressa in modo intenso e sregolato, così da diventare problematica nelle relazioni interpersonali. Porta spesso all'azione con condotte aggressive sia a livello fisico che verbale, sotto forma di critiche perentorie e commenti sprezzanti, sarcasmo, rancore e ostilità.

    La rabbia è tanto intensa quanto instabile: a volte basta semplicemente cambiare discorso o rassicurare verbalmente la persona affetta da DBP e la rabbia "svanisce".

    G. non è una persona dalla condotta aggressiva, non è difficile però percepire in lui una forte retroflessione della rabbia (direzionamento verso il sé), sentimento che G. non esprime, ma ingoia, per l'abitudine a controllare la sua forza potenzialmente distruttiva. Non percepire la propria rabbia quindi non gli permette nemmeno di sentire la propria forza e la capacità di agire nel mondo in modo efficace.
  9. Ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress.
    Poiché le valutazioni di queste persone tendono a essere estreme e instabili, così come i loro sentimenti, si osserva la tendenza, in situazioni stressanti, ad attribuire agli altri intenzioni malevole e persecutorie nei propri confronti (proiezione paranoide dei propri sentimenti ostili). Anche l'ideazione paranoide risulta però transitoria e legata a particolari eventi stressanti. In ogni caso questi episodi vengono percepiti come disturbanti ed egodistonici, per cui è presente il desiderio di liberarsene.

    I sintomi dissociativi più frequenti sono, per queste persone, la depersonalizzazione (mancata percezione del proprio corpo o di parte di esso, oppure la sensazione che la propria mente non controlli più il proprio corpo, o la sensazione di osservarsi dall'esterno) e la derealizzazione (sensazione che la realtà esterna non sia propriamente reale e immanente, ma trasformata in qualche modo o distanziata, come se fosse al di là di un velo).

    G. non presenta ideazioni paranoidi ma piuttosto, come evidenziato nei suoi racconti e poi anche dall'analisi dei suoi sogni, prova un forte senso di depersonalizzazione, come se non fosse lui a vivere la sua vita, ma un mostro che alberga dentro di sé, qualcuno di non completamente umano, un essere probabilmente a sangue freddo che non ha la capacità di entrare in contatto con quanto di caldo e nutriente c'è nella vita.

Secondo il DSM IV per porre la diagnosi di DBP non è necessario che tutti i criteri riportati vengano soddisfatti: ne bastano solo cinque.

Da ciò consegue che, a parità di diagnosi, due persone possano avere in comune solo un criterio diagnostico e quindi differire notevolmente nel quadro clinico.

Con sette criteri soddisfatti su nove, G. risulta verosimilmente affetto dal disturbo che per convenzione nominiamo Personalità Borderline.

La personalità di G. nel sistema Enneagramma

Riferendomi al sistema enneatipico, elaborato dallo Psicoterapeuta e Antropologo cileno Claudio Naranjo, io ipotizzo che G. appartenga all'Enneatipo Quattro.

Lo stesso Naranjo accosta questo tipo di personalità a quelle descritte da Millon e dal DSM IV sotto la definizione di Disturbo Borderline di Personalità.

Secondo Naranjo la passione dominante (l'impulso, il sentimento prevalente che dà forma al comportamento) di questo enneatipo è l'invidia, che determina un carattere definito come "depressivo-masochista".

Elemento distintivo di questo tipo di persone è la necessità di sentire i bisogni attraverso l'altro, e quindi di fissarsi in una posizione di "falsa mancanza" per cui "quello che ho non è mai abbastanza e non mi gratifica".

Quando questi soggetti quindi ricevono un complimento, come primo istinto credono che non sia sincero ma che abbia solo un intento manipolativo nei loro confronti; quando sono costretti invece a prenderlo sul serio utilizzano lo strumento della svalutazione dell'altro (chi esprime il complimento), e quindi anche di sé (in quanto possessore della caratteristica positiva evidenziata dal complimento).

Come meccanismo di difesa preferito impiegano l'introiezione, che ha per effetto la cattiva immagine di sé che caratterizza i Quattro, e i sensi di colpa da cui sono costantemente assaliti.

Scrive Naranjo:

«Lo stato emotivo dell'invidia implica la sensazione dolorosa di carenza e di desiderio per ciò di cui ci si sente privi; è una situazione in cui le cose buone sono vissute come qualcosa di esterno a noi, che sentiamo il bisogno di incorporare. Benché l'invidia sia una reazione comprensibile a una frustrazione e a una deprivazione precoce, nella psiche rappresenta un fattore autofrustrante, perché il desiderio smisurato d'amore che essa implica non soddisfa mai la sensazione cronica di penuria e negatività interiore, ma al contrario provoca a sua volta altra frustrazione e altro dolore.
La frustrazione è una conseguenza naturale dell'invidia».
(Naranjo C.,"Carattere e nevrosi")

Il Quattro dunque interiorizza il rifiuto genitoriale o introietta un genitore non amorevole, portando così nella propria pelle una serie di caratteri che vanno da un cattivo concetto di sé alla necessità di distinguersi per la propria "specialità", e che implicano una sofferenza cronica e una dipendenza dal riconoscimento esterno.

Inoltre succede spesso in terapia, che si manifesti quel meccanismo che la Psicoanalisi chiama "rivolgimento contro il sé", e che Fritz Perls (fondatore della Psicoterapia della Gestalt) invece definisce "retroflessione".

In altre parole il concetto di retroflessione suggerisce che la rabbia, generata in seguito a una frustrazione, provata nei confronti della persona che per primo l'ha inflitta, venga rivolta introiettivamente anche verso di sé.

Questo aspetto è chiaro in G. sia dai suoi comportamenti autolesivi, sia dalla sua tendenza all'isolamento nella "bolla" che lo separa, ma anche lo protegge, dal contatto con gli altri.

Rispetto alla struttura della personalità del tipo Quattro, Naranjo individua come elementi distintivi:

  • l'invidia,
  • l'immagine di sé scadente,
  • la tendenza a sintonizzarsi sulla sofferenza,
  • l'andare verso,
  • l'accudimento,
  • l'emotività,
  • l'arroganza competitiva,
  • la raffinatezza,
  • gli interessi artistici,
  • la presenza di un forte Super-Io.
Invidia

Scrive Naranjo:

«... se intendiamo l'essenza dell'invidia come un desiderio troppo intenso di incorporazione della "madre buona", il concetto coincide con la nozione psicoanalitica di "impulso cannibalico" che può manifestarsi non soltanto come fame d'amore, ma come voracità o avidità generalizzate. Un'avidità controllata e venata di sensi di colpa fa parte della psicologia del tipo Quattro, ma non è intensa come l'avidità disinibita e appropriativa del tipo Otto, e non così tipica dei caratteri invidiosi quanto lo è l'invidia nella concezione di Melanie Klein [...] Inoltre, quale sia la verità sul momento in cui l'invidia inizia durante l'allattamento, nell'esperienza di molti tale sentimento non viene vissuto a livello cosciente nei confronti della madre, bensì di un fratello che la madre predilige, di modo che, deciso a conquistarsi l'amore materno, l'individuo ha cercato di essere quel fratello o quella sorella, anziché sé stesso».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

È vero infatti che G. nutre un forte risentimento verso il fratello mediano, S., il quale viene sempre difeso dai genitori a suo discapito.

Il bisogno d'amore più grande per un Quattro - e anche per G. - è quello di sentirsi riconosciuto e rispettato nel proprio drammatico bisogno d'amore.

Un altro ambito in cui è facile che regni l'invidia è quello sociale, ma in maniera ancora più sottile.

«L'invidia può manifestarsi come la ricerca continua di eventi straordinari e di esperienze intense, cui corrisponde l'insoddisfazione per ciò che è ordinario e privo di drammaticità».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

Contemporaneamente all'invidia sociale G. sviluppa un aspetto che l'analista junghiano Donald Kalsched (2006) chiama di "sabotatore interno", e che spinge G. a scappare "da tutte le partite già perse in partenza".

Cioè quando sulla strada si profila un ostacolo che G. percepisce al di là delle sue capacità, semplicemente rinuncia al suo obiettivo e corre in un'altra direzione, con l'esito di "avere sempre il fiatone", sentirsi sempre stanco, non sapere in che direzione andare, cosa voglia veramente, e avere un'immagine di sé come di uno che non è in grado di fare né ottenere nulla nella vita.

E così continua a tenere in equilibrio precario una situazione di vita che lo fa sentire in perenne rischio di caduta nel vuoto.

Scadente immagine di sé
«È questa auto denigrazione che crea il "buco nero" dal quale emerge la voracità dell'invidia con il suo aggrapparsi, il suo pretendere, il suo mordere, la sua dipendenza, il suo attaccamento eccessivo, in tutte le loro manifestazioni».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

La profonda solitudine di G. sembra essere per lui la dimostrazione di non essere "abbastanza" per chi gli sta intorno. Ciò lo introduce in un circolo vizioso per cui nessuno riesce a vedere, e quindi a penetrare, oltre la sua facciata di ragazzo scanzonato e a entrare in relazione con lui.

G. quindi continua a sentirsi sempre più solo e a rafforzare le barriere intorno a sé, per difendere quella parte vera ma vulnerabile che nemmeno a se stesso concede di conoscere, continuando così a incrementare la disistima: «Io non ho una personalità».

Sintonizzarsi sulla sofferenza

Faccio riferimento all'aspetto masochistico del Quattro.
In questo ambito rientrano non solo l'immagine negativa di sé e la frustrazione nel raggiungimento dell'oggetto d'amore, ma anche l'uso del dolore a scopo vendicativo o per il raggiungimento dell'amore.

In qualche modo la mancanza d'amore viene giustificata con qualche caratteristica personale deficitaria, per esempio "non sono amato perché non sono abbastanza buono".

Nel contempo lo stesso "deficit", amplificato, viene utilizzato per reiterare una richiesta d'amore che resta per questo eternamente insoddisfatta, producendo altra frustrazione e altra solitudine.

Cioè una richiesta di vicinanza emotiva che ottiene esattamente il contrario e giustifica l'atteggiamento sprezzante e ostile nei confronti della stessa persona verso cui è diretta la richiesta decisamente ambigua.

Come conseguenza, i Quattro sono persone intense, appassionate e romantiche, tendono a soffrire di solitudine e questo struttura in loro un senso tragico sia del presente che del futuro e della vita in generale.

«Di particolare rilievo nel quadro doloroso della psicologia del tipo Quattro è ciò che riguarda il senso della perdita, che in genere riecheggia esperienze reali di perdite e privazioni, e a volte è presente come paura di una perdita futura o come tendenza a soffrire intensamente per le separazioni e le frustrazioni della vita».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

E una perdita dolorosa è realmente rintracciabile nella storia di vita di G.
Mi riferisco a Silvia, il cui lutto non è mai stato elaborato, ma si è invece cristallizzato attraverso una modalità ricorsiva dei pensieri che continuano a ruminare i ricordi relativi alla relazione, senza però mai sfociare prima in un contatto pieno e poi in una distanza emotiva che riconosca la gioia vissuta, la gratitudine e il dolore come elementi nutrienti e dignitosi dell'esperienza.

Ugualmente, l'esibizione di una tale sofferenza è funzionale all'attrazione verso di sé delle altre persone: fa di lui una "persona interessante" in quanto ha vissuto esperienze terribili ed è "sopravvissuto per raccontarle".

L'interruzione del ciclo di contatto con i propri bisogni personali (sia emotivi che fisici), e con le persone che costituiscono l'ambiente di vita relazionale, non permette la loro soddisfazione e quindi non consente al vissuto emotivo relativo di tornare sullo sfondo per concedere ad altre necessità (emotive e/o fisiche) di emergere dallo stesso.

Ma ben oltre questo, elementi di distacco emotivo e di non raggiungimento dell'oggetto d'amore sono rintracciabili anche più precocemente nella storia di G., o comunque nel modo in cui lui vive la sua storia.

La sensazione di sé come di un bambino ingombrante per le sue dimensioni, la sua forza e la sua goffaggine e, per certi versi, di bambino scomodo (G. è stato concepito durante un momento di crisi della coppia genitoriale e la sua nascita ha portato poi al matrimonio) sono ancora presenti nell'immagine di sé bambino.

G. si sente completamente scollegato, e al tempo stesso protetto dal resto del mondo, dalla "bolla" che lo circonda e che però non gli permette di allungare le sue mani e le sue gambe nel mondo per poter andare a prendersi ciò che vuole.

Andare verso
«Più di qualsiasi altro carattere, i Quattro possono dirsi "amore-dipendenti": un desiderio d'amore, il loro, che è alimentato a sua volta dal bisogno di ottenere quel riconoscimento che essi sono incapaci di darsi da soli. [...] In particolare, il bisogno di protezione finanziaria può essere alimentato dal desiderio di sentirsi accuditi».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

G. sembra andare per il mondo a esibire la propria sofferenza in cerca di qualcuno che finalmente sia in grado di capirlo e prendersi cura di lui.

Probabilmente è da inscrivere qui la sua incapacità di rendersi finanziariamente autonomo dai genitori, cui richiede comunque il mantenimento in un'altra città.

Sente molto il bisogno di rendersi indipendente dai genitori, ma ogni volta che pianifica un modo per andare verso quest'autonomia e procurarsi un lavoro, immancabilmente i tentativi vengono "auto-sabotati" per poi finire nel nulla.

Accudimento

Come più volte ricordato, il tipo Quattro si distingue anche per l'atteggiamento gentile e disponibile verso gli altri, salvo poi dimostrarsi instabile nei rapporti e incapace di reale intimità.

In ogni caso: «La sua capacità di accudimento non è solo una forma di do ut des, vale a dire esclusivamente in funzione del suo bisogno d'amore, ma sembra altresì fondata su un'identificazione empatica con i bisogni degli altri [...] La capacità di accudimento del tipo Quattro può essere compresa, da un punto di vista dinamico, come una forma di seduzione al servizio di un intenso bisogno dell'altro, un bisogno sempre dolorosamente frustrato» (Naranjo C., "Carattere e nevrosi"), in quanto eccessivamente richiedente e svalutato nel momento in cui la risposta desiderata non arriva.

Poiché quindi il tipo Quattro non dispone di confini personali ben definiti, confonde se stesso con i bisogni degli altri e si aspetta che anche gli altri abbiano una simile conoscenza diretta dei suoi bisogni e siano dunque pronti a soddisfarli così come lui farebbe per loro.

Un esempio ne è l'atteggiamento ambivalente verso gli affetti di G., ma anche la sua difficoltà a chiarirsi quali siano le sue aspettative verso le persone e verso se stesso, nonché la difficoltà a porre confini chiari che gli consentano di dire i giusti "no".

Emotività

Per Naranjo l'emotività è evidente sia nell'intensità con cui vengono vissuti i sentimenti romantici e la sofferenza, ma anche nell'esperienza della rabbia.

La rabbia di G. è stata finora solo distruttiva, o almeno temuta tale, quanto quella da lui sperimentata nei momenti di "assenza", quei momenti in cui - come sopra riportato - G. si accorge a posteriori di essersi comportato in maniera aggressiva verso qualcuno o qualcosa.

G. non è invece ancora in grado di considerare il valore della rabbia quando questa è funzionale al mantenimento e alla difesa dei propri confini.

Arroganza competitiva
«Collegato all'emotività carica di odio, un atteggiamento di superiorità coesiste talvolta con una cattiva immagine di sé, e come compensazione di essa.
Benché l'individuo possa ribollire di biasimo e di odio per se stesso, in questo caso l'atteggiamento verso il mondo esterno è quello di una prima donna, o almeno di una persona molto speciale. Quando la pretesa di essere speciale viene frustrata, può sfociare in un ruolo da vittima, il "genio incompreso"».
(Naranjo C., "Carattere e nevrosi")

Questo risulta evidente per G. nella caratterizzazione del personaggio dei suoi racconti J.P., del suo essere al di fuori e al disopra di questo mondo, mostrando un atteggiamento sprezzante verso chi vive con soddisfazione la propria quotidianità.

Purtroppo però J.P. manca di un aspetto propriamente umano, non è dotato cioè di sensibilità integrata tra i poli emotivi opposti, estremizzando il carattere dell'odio e del disprezzo, mentre G. non è da meno, incarnando solo la polarità della debolezza e della vittima.

È un po' come se G. e J.P. fossero le due facce speculari e opposte di una sola persona.
Mai come nel rapporto tra la realtà e i racconti prende forma il conflitto tra le polarità opposte.

La raffinatezza

Il senso estetico dei tipi Quattro si esprime attraverso la ricerca di comportamenti e atteggiamenti distinti ed eleganti, e attraverso una sensibilità che si potrebbe definire artistica.

Allo stesso tempo questa tendenza è accompagnata dal disprezzo per tutto ciò che può essere considerato banale e grossolano e dal desiderio di emulare ciò che è originale in altri.

Tutto questo ha poco a che fare con la spontaneità, ma piuttosto con il desiderio di raggiungere una situazione ideale e di sembrare diversi da come si è, allo scopo di compensare l'immagine di sé mediocre.

In G. questo aspetto prende la forma di un atteggiamento interno di svalutazione della rozzezza altrui e di un'attenta ricerca lessicale nell'espressione sia orale che scritta.

Non si esprime invece nella cura dell'immagine di sé, o meglio, anch'essa è attentamente studiata, ma allo scopo di comunicare un senso di trasandatezza e di ribellione verso le regole del "buon costume", che lo tengano al riparo dalla minaccia rappresentata dalle altre persone e dalle loro aspettative.

Interessi artistici

La predisposizione artistica del tipo Quattro ha a che vedere con la sua capacità di fare del sentimento, in particolare del dolore, il centro di tutto.

In più l'espressione artistica viene incoraggiata nel momento in cui la persona intravede nel dolore stesso una forma di bellezza artistica in sé.

Del resto G. traspone tutto il suo tumulto interno, i conflitti e l'aumentata percezione del dolore, nei suoi scritti, che diventano una forma di comunicazione molto personale nel momento in cui vengono offerti per la lettura solo a pochi eletti: persone che ritiene abbiano le capacità minime per comprenderlo.

Super-Io forte

La forza del Super-Io di questo tipo è visibile sia nell'attaccamento ai cerimoniali, che riflettono al contempo il gusto per ciò che è armonico - e perciò bello - e il gusto per le regole che li costituiscono, sia nella propensione alla colpa tipica di questo carattere.

In G. questo è evidentemente espresso dal forte senso di colpa che lo accompagna quotidianamente: quell'aspetto di "sabotatore interno" di cui parla Kalsched e di cui ho già argomentato nel corso dell'articolo.

I sottotipi istintuali del tipo Quattro

Nel sistema enneatipico, come abbiamo accennato più sopra, esistono complessivamente nove tipi caratteriali e per questa trattazione ho fatto riferimento, nello specifico, al tipo Quattro, identificato con il sentimento di Invidia. Ho cercato di evidenziare quali sono le caratteristiche di un Quattro e come esse si declinano nella vita di G.

Andando oltre, Naranjo ha ipotizzato che per ogni carattere esistano tre varianti, che riflettono ciascuna il tipo di istinto predominante nella personalità del soggetto specifico. Questi istinti sono quello di autoconservazione, la pulsione sessuale oppure l'istinto sociale.

Io credo che nella gerarchia interna di G. il primo posto vada attribuito al tipo Conservativo: il suo sforzo è infatti proiettato a resistere al dolore, al non sentirlo affatto in quanto troppo forte.

Successivamente si struttura il tipo Sociale con la sua tendenza alla lamentazione passiva e infine quello Sessuale con odio distruttivo contro ciò che comunque non riesce a ottenere.

Conclusioni

In conclusione, alla luce dell'analisi diagnostica effettuata, posso formulare una diagnosi di DBP per G. Più importante è però il fatto che la diagnosi mi è servita da un lato per confermare le osservazioni personali, dall'altro per indirizzare in maniera più precisa le successive scelte terapeutiche, anche in presenza di indicazioni parziali.

Faccio un esempio.
Conoscendo la tendenza all'autofrustrazione di G. ho potuto meglio indagare anche il suo sentimento di vuoto interiore e di mancanza originaria di amore per sé.

Avrei sicuramente raggiunto queste conoscenze anche in assenza di un'indagine diagnostica, ma probabilmente avrei impiegato più tempo o sarei stata meno precisa nell'individuare ciò che costituiva veramente un problema per il paziente, al di là della sua richiesta iniziale (insonnia e mancanza di concentrazione).

Quindi se è vero, come dice Naranjo, che l'invidia del tipo Quattro si struttura attraverso la frustrazione dei primi bisogni di attaccamento del bambino, è vero anche che G. non fa altro - durante la sua vita - che continuare a recriminare ciò che originariamente non ottenne dalla madre.

Tuttavia questa strategia si trasforma per lui in una trappola.
Infatti mentre il bambino aveva bisogno urgente di amore, la sua ricerca esagerata e compulsiva nel presente non solo non porta al risultato desiderato, ma addirittura porta a frustrazioni successive che semplicemente permettono la reiterazione del circolo vizioso appena descritto.

Il presente diventa la trappola che fa rivivere costantemente il passato.
Diventa importante allora per G. non tanto ottenere sostegno, riconoscimento e cura da qualcuno all'esterno di sé, quanto invece conquistare la capacità di riconoscersi, auto-sostenersi e amarsi nonostante la propria mancanza originaria, la propria imperfezione, forse proprio quella che si sente essere all'origine del deficit di accudimento iniziale.

G. deve cioè sviluppare un'idea di sé come centro unificatore, che contrasti l'aspettativa centrifuga proveniente dall'esterno.

G. ha necessità di sviluppare un senso minimo di fiducia in sé, al fine di rendersi il più indipendente possibile dalle richieste esterne.

Ancora prima di questo, però, ha necessità di riconoscere dentro di sé un "centro", che sia percepito come "buono" e che sia capace di attrarre a sé tutte quelle caratteristiche che possono considerarsi come personali; di avere un senso di sé come esistente nel mondo, occupante uno spazio che gli è proprio e da cui derivano un peso specifico e delle azioni-nel-mondo possibilmente efficaci a manipolare il mondo stesso ai fini della sopravvivenza.

Per questo motivo il lavoro terapeutico con G. si è focalizzato, per il primo periodo, sul vissuto corporeo, sulla percezione di sé in primo luogo fisica e poi emotiva, allo scopo di restituire al "bambino nella bolla" l'uso dei propri arti e dei propri sensi.

In questo modo il "bambino" ha potuto usarli per crescere e piano piano G. ha acquisito la capacità emotiva di diventare padre di se stesso, di rendersi conto delle proprie necessità di fare azioni nel mondo che siano adatte al loro soddisfacimento.

Naturalmente tutto questo percorso, monitorato nel tempo anche al livello inconscio, grazie al lavoro sui sogni del paziente, ha portato alla messa in discussione del rapporto di G. con il padre - vissuto da G. come autoritario e invadente - e del suo rapporto con le donne.

In questo ambito il rapporto è passato dal distacco formale e denso di paura, all'accettazione del rischio di un percorso di avvicinamento emotivo alla ragazza da cui era attratto in quel momento, tutto questo nel rispetto dei tempi di G. e delle sue "norme di sicurezza interna".

A questo punto del percorso, purtroppo, G. ha dovuto sospendere la terapia.
Sicuramente per le difficoltà economiche che si è trovato a dover affrontare, ma altrettanto sicuramente perché sentiva inesorabilmente l'avvicinarsi dei temi, per lui centrali, del rapporto con la madre e dell'esistenza in lui di un nucleo interno positivo e meritevole di apprezzamento e amore.

Al momento della sospensione della terapia, la vita di G. era molto migliorata rispetto a quando mi ha contattata la prima volta: aveva stabilito un rapporto accettabile con la sua famiglia; aveva intrapreso un percorso formativo più affine alle sue caratteristiche personali; aveva trovato un lavoro che gli permetteva di non gravare completamente sulle finanze familiari e aveva sostenuto lo sforzo di un rapporto intimo e sincero con una ragazza per qualche anno.

Sono davvero orgogliosa di lui e di come è riuscito a cambiare la propria vita pur non stravolgendola. Una parte di me tuttavia è dispiaciuta che non abbia portato a termine la terapia: dispiaciuta perché potrebbe essere ancora più soddisfatto di sé e dispiaciuta perché non ho compiuto il mio lavoro fino alla fine, ma so bene che la vita è la migliore delle terapie!

So che G. ha tutti gli strumenti che gli servono e che quindi, quando sarà per lui il momento giusto, percorrerà l'ultimo tratto di strada che gli manca.

Bibliografia
  • Andreoli V., Cassano G. B., Rossi R. (a cura di), "DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali", Elsevier, Milano, 2007
  • Jung C.G., L'applicabilità pratica dell'analisi dei sogni, in "Opere", Vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1934
  • Kalsched D., "Il mondo interiore del trauma", Moretti & Vivaldi, Bergamo, 2006
  • Millon T., Disorders of Personality, in C. Naranjo, "Carattere e Nevrosi", Astrolabio, Roma, 1996
  • Naranjo C., "Carattere e nevrosi", Astrolabio, Roma, 1996
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Commenti: 22
1 Elisa alle ore 17:15 del 08/11/2012

Trovo che questo articolo sia veramente molto completo, esaustivo e che aiuti a viaggiare con immagini nel complesso mondo della relazione terapeutica con i pazienti borderline.

2 Braciola alle ore 13:14 del 09/11/2012

L'articolo, ben strutturato e completo, si legge piacevolmente consentendo di approfondire la riflessione sul DBP e di confrontare l'approccio dell'autrice con il proprio rintracciando collegamenti utili a generare nuovi spunti. Bella lettura!Sorridente

3 Edvige alle ore 12:24 del 28/03/2013

Articolo ben strutturato, esaustivo e ben correlato ad approcci gestaltici non di poco conto. Utile a coloro che volessero entrare, un po' più nello specifico, nel mondo DBP. Complimenti alla collega.

4 Valentina alle ore 18:25 del 28/03/2013

Vi ringrazio per i commenti postivi. Come ogni mio articolo, anche questo rappresenta un tentativo di pensare quello che scrivo, cioè di ragionarci sopra ed elaborare la mia esperienza per esigenza di scrittura: scrivere mi aiuta a pensare insomma.Sorridente

5 alessandra alle ore 18:57 del 23/08/2013

Grazie per questa bellissima lettura che aiuta anche me, moglie di una persona affetta da questa patologia che cerchiamo di trasformare pur nelle difficoltà. 

6 Valentina alle ore 13:04 del 24/08/2013

Grazie a te Alessandra

7 Alessandro alle ore 15:37 del 01/03/2014

Incredibile, sembra la storia di una mia amica, la famiglia, l'impossibiltà di rendersi autonoma dalla stessa, l'uso della propria sofferenza quale mezzo per attirare le persone, l'apparente comportamento manipolatorio. Il lutto come trauma scatenante..anche se nel suo caso vi è un amore giovanile strappatole da una comunità, e mai più rivisto...un sacco di similitudini basta cambiare il sesso e anche il primo incontro in studio, con le gambe in quella posizione sono tipiche di lei che è molto alta e a volte può apparire goffa. Comunque sono affascinato dalla tua descrizione dettagliata di questo disturbo, con una scrittura comprensibile anche dai non addetti come me. Sono capitato in questa pagina perchè in lei ho riconosciuto questo disturbo e volevo saperne di più. Complimenti

8 laura alle ore 13:34 del 04/07/2014

Io sono affetta da dbp. Sono in cura da anni da psichiatra e psicoterapeuta.Leggo tanto. Ho migliorato i miei rapporti con la famiglia di origine, con la mia famiglia, mio marito e le mie figlie.Dopo anni di cura però non riesco ancora a riconoscermi, chi sono, a darmi un valore a debbellare il vuoto, a non sentirmi sola al mondo. Solo a sprazzi mi riconosco e mi do un valore, ho una stima di me. Soffro di disturbi alimentari, abbuffate. Questa lettura mi ha aiutato tanto e l'ho salvata tra i miei preferiti e la stamperò. La porterò come un vademecum nei momenti di tristezza in cui non si ha speranza di nulla. Rileggerla a volte dà modo al paziente affetto da dbp di capire che il vuoto non è reale ma autoindotto, che la disistima è interiore e porta all'isolamento e alla pretesa di eccezionalità.Affetto smisurato da parte degli altri, esperienze eccitanti al massimo e  tutto ci deluderà e non ci basterà mai.

Grazie

 

9 Valentina alle ore 20:57 del 04/07/2014

Grazie Laura.

Felice di esserti accanto anche da lontano 

10 romano alle ore 04:49 del 25/09/2014

Sono dbp dall età di 11 anni, nel 2005 si è suicidata la mia convivente e pochi giorni fa mia madre si è impiccata, credete che il vuoto sia autoindotto? le raggiungerò presto, sono stanco.

11 laura alle ore 14:02 del 25/09/2014

Romano nessuno puo' ridarti i tuoi cari ma proprio perchè sai di essere dbp sai anche che oggi ti senti piu'nero, che oggi stai piu'giu', ma domani magari sarai un pò meno giu', magari potrai essere utile a qualcuno. Non fare nulla quando stai a terra.

12 romano alle ore 15:49 del 25/09/2014

Sonp bdp dall'età di 11 anni anche se i primi sintomi sono apparsi a 5/6 anni, ora ne ho 45 e mi curo da 26, ma dopo una lite con me, mia madre ha deciso per l'ultimo gesto... ha lasciato scritto che lo ha fatto per farmi stare bene, lei era istrionica, la mia convivente anoressica, quindi non è un giorno che combatto, la mia vita attuale è un deserto, l'isolamento che ho scelto è per non nuocere piu a nessuno, mio padre invalido civile, io precario, ma che vivo a fare? Non ho mai avuto miglioramenti, anzi, quest'estate sotto stress per lavoro, con genitori non autosufficenti, ho avuto un crollo con molti episodi d'ira e paranoie, alla fine il 9 settembre la lite con mamma, la corda al collo legata all'olivo in giardino, penzolava, era ancora viva, l'ho sollevata ma ero solo, mio padre non deambula, l'ho tenuta su per molto tempo, poi sono crollato sotto il suo peso, sono corso in casa per prendere le forbici, ho tagliato le corde, praticato massaggio cardiaco e respirazione (ex volontario cri), ma dopo la frattura di un paio di costole e nessuna reazione, mi sono arreso. Tutto questo è troppo per me.

13 Valentina alle ore 22:40 del 25/09/2014

Ciao Romano,

è davvero forte la sofferenza che mi arriva attraverso le tue parole. Non hai certo avuto una vita facile e tutt'ora affronti prove che sfiancherebbero chiunque.

Non ho mai avuto un'esperienza come la tua ma tu mi aiuti a comprendere meglio cosa voglia dire vivere 'in un deserto' e sentirsi addosso il peso dell'infelicità altrui.

Non so se quello che sto per dirti possa avere un senso per te, ora... ma dalla tua descrizione mi sembra di intuire che le persone che ti hanno lasciato nel tempo, abbiano fatto la loro scelta, perchè entrambe hanno deciso di mollare nella lotta per la propria vita, e verosimilmente sarebbe stato così, avrebbero fatto lo stesso, con o senza di te.

Al di là di tutto, anche al di là della vicinanza fisica, ciò che rimane ancora presente è l'amore che vi siete scambiati, che hai ricevuto e che hai donato, e questo legame resiste anche adesso che non ci sono più perchè sopravvive dentro di te.

Non voglio sembrarti ingenua o melensa, ma spesso capita che ricordiamo più facilmente il male che ci siamo scambiati, che realmente sopravvive, piuttosto che l'amore scambiato. Le due cose non si escludono a vicenda ma convivono una accanto all'altra: si tratta di una 'addizione' e non di una sostituzione.

Credo quindi che sarebbe meglio, per conservare e proteggere questo legame, ancora esistente, porsi nell'atteggiamento di ringraziare i nostri cari per quello che ci hanno donato mentre erano in vita e per l'eredità positiva che ci hanno lasciato andandosene, ricordando che non siamo stati noi a costringerli a fare le loro scelte, ma che loro hanno ritenuto che questo fosse il meglio che potevano fare per la loro stessa vita.

Ti saluto, Valentina.

14 romano alle ore 23:14 del 25/09/2014

Valentina ti ringrazio per l'analisi che hai voluto mostrarmi e mi sentirò sicuramente in colpa per ciò che sto per scrivere, mia madre in quanto tale, mi ha certamente amato, le dinamiche non sono mai le stesse per nessuno, avere sintomi bdp all'età di 6 anni vuol dire essere nati nella famiglia sbagliata, genitori alcolisti fino pochi anni fa, un trasferimento dall'olanda all'italia a 4 anni di età, ho assistito a tanta violenza, a 8 anni avevo gia la concezione della morte temendola, perché mia sorella maggiore si tagliò le vene di fronte a me incolpandomi del suo gesto, sono nato colpevole e mi sento in colpa per essere nato. So che puo sembrare illogico, ma ne sono convinto da troppo tempo. A 22 anni mi cacciarono da casa perché depresso non riuscivo piu a studiare o lavorare, non capivano, ho cercato più volte di spiegare ma parlare in casa era un optional, ancor più lo era ascoltare. Ora che ho dato le giustificazioni, posso confessare le mie colpe, con l'ultima lite mi sono ribellato contro di lei, le ho urlato in faccia il suo fallimento di madre, mi sono lanciato contro una donna di 71anni in cura per depressione, fragile, indifesa. Mentre ci litigavo sapevo di ferirla ma non riuscivo a fermarmi, lei è uscita e dopo poco volevo abbracciarla, ma era troppo tardi. Credimi Valentina, non posso vivere con questo peso, ho gia deciso di aspettare mio padre, dopo di che finirò di soffrire anche io liberando il mondo della mia inutile esistenza.

15 romano alle ore 23:26 del 25/09/2014

Volevo aggiungere che a 22 anni mi cacciarono e per 6 anni ho vissuto in strada, non avevo niente ed ero depresso pesantemente, senza volerlo sono stato un asceta eremita, la mia casa non era una stazione o un dormitorio, mi sono isolato dentro un bosco, ne uscivo solo quando la natura non offriva cibo ed i cassonetti si.

16 heletra alle ore 12:11 del 17/03/2015

Ciao Valentina, ho letto il tuo testo perché interessata all'argomento.

Mi sono imbattuta in un dbp, un ragazzo alto, bello, sensibile, affascinante, dolce, attento nei confronti dei bambini, con due mani grandi quasi a proteggerti. Un uomo che già avevo conosciuto da ragazza, durante il liceo, e incontrato nuovamente dopo 22 anni... il suo essere solitario mi ha nuovamente affascinata ma dopo pochissimi mesi di un rapporto dolce, intenso, significativo, abbiamo avuto un piccolo screzio e da li ho iniziato a intuire qualcosa che il mio "io dentro" stava già cercando di dirmi. Purtroppo mi sono innamorata di lui anche se il mio grande amore per me stessa mi ha già costretta ad allontanarlo ma una cosa che non riesco a fare è quella di cancellarlo definitivamente, buttar via il suo numero di telefono, insomma non pensarlo... sempre più spesso cerco di capire come posso aiutarlo, sto sbagliando? La mia ragione mi dice che non posso fare la sua terapeuta ma allo stesso tempo cerco di inventarmi qualcosa per continuare a essere presente nella sua vita... cosa devo fare? Lui ha dentro di se un così grande male di vivere, è contraddittorio, dice di voler stare da solo e poi sono anni che cerca di instaurare rapporti con donne che poi lui stesso manipola e allontana passando agli occhi altrui come vittima e tutti questi rapporti durano poco tempo... e ogni volta che ne inizia uno nuovo si presenta come vittima del rapporto precedente, dice di esserene stato innamorato e che ha bisogno di star solo e nel mentre costruisce legami con la sua nuova preda... per concludere i suoi occhi sono senza luce... 

17 antonio alle ore 15:53 del 05/11/2015

vorrei sapere,una persona affetta da questo disturbo  che non ha i soldi necessari per poter andare da uno specialista datosi che cene vogliono parecchi, per curarsi in alternativa mi potreste consigliare un genere di lettura da poter leggere attraverso la quale non dico di curarsi ma almeno alleviare la sofferenza e vivere una vita piu tranquilla? grazie di tutti i sacrifici che avete fatto e che fate ancora per aiutare ed amare il tuo prossimo come te stesso.grazie

18 romano alle ore 10:41 del 04/12/2015

È morto anche mio padre, ora tocca a me.

19 Valentina alle ore 11:11 del 04/12/2015

Ciao Romano, mi dispiace tanto x la tua solitudine e per il tuo recente lutto. Questo è un momento davvero difficile x te. Credo che ora più che mai ti aiuterebbe trovare qualcuno che ti segua professionalmente, cioè con tutta la sua umanità. 

Ti sono vicina anche se da così lontano. 

20 Valentina alle ore 11:23 del 04/12/2015

Ciao Antonio, scusami x il ritardo nella risposta. Purtroppo non ho un libro da consigliarti perché sono convinta che un libro non abbia il potere di guarirci e liberarci dalle nostre gabbie. In particolare credo che ciò che è curativo è un contatto umano autentico oltre che competente e, si, questo ha un valore e dunque un costo.  Tuttavia le strutture pubbliche sono piene di colleghi in gamba, magari anche nella tua zona! Spesso però la difficoltà sta nel chiedere aiuto a qualcuno guardandolo dritto negli occhi e tollerando l'imbarazzo di essere realmente visti nelle proprie fragilità a propria volta. In questo caso bisogna chiedersi, secondo me, se questa non sia proprio quella cosa che evito ma che sarebbe quella giusta x farmi stare meglio. È un bilancio tra costi e opportunità! Spero di esserti stata utile in qualche modo. 

21 Aria alle ore 03:11 del 29/12/2015

Ciao... Articolo molto interessante, grazie della condivisione. Credo di conoscere una persona che potrebbe soffrire di personalità borderline... Qual è il modo migliore di interagire con una personalità del genere? Inutile dire che ho versato milioni di lacrime per lei e i suoi comportamenti contraddittori, eccessivi, aggressivi o 'ciechi'... Puoi darmi qualche consiglio o qualche altra lettura utile? Mi è stato consigliato di allontanarmi, e forse stavolta sta accadendo davvero, perchè non ne posso più di disperarmi e persino deprimermi... Ma lo faccio con estrema difficoltà, perchè le sono estremamente legata e perchè, capendo che ha un problema non piccolo, mi dispiace e vorrei fare qualcosa, ma in sinstesi ci provo da molto tempo e mi ritrovo a pezzi... anche io oscillante tra sensazioni di profondo affetto, frustrazione e rabbia... Anche io ho le mie fragilità e ne esco distrutta... Messo che ne sto uscendo... Come posso agire al meglio? Grazie del parere...

22 Moira alle ore 00:57 del 04/01/2016

Salve, mi sono stabilizzata nel Dbp dopo un anno di autolesionismo "puro" (16 anni), due di anoressia con condotte di eliminazione (precedute da un esordio di circa 6 mesi come anoressia mentale che sono stata costretta a modificare a causa di alimentazione coatta), un altro anno di bulimia pura. La remissione della bulimia è avvenuta 4 anni fa, nonostante saltuariamente si ripresentino periodi della durata di mesi (massimo 4) in cui ricompare il sintomo anoressico rispondente a tutti i criteri e nonostante episodi di abbuffate con vomito (episodi isolati o protratti su più giorni, più volte al giorno). Grazie allo studio ho potuto rilevare che i primi sintomi che potevano suggerire la possibilità di sviluppare Dbp li ho manifestati intorno agli 11-12 anni. Idee paranoidi in momenti di stress e crisi abbastanza intense di derealizzazione sono comparse verso i 14 anni. In effetti sono pervenuta al Dbp in seguito alla riorganizzazione della personalità che ho dovuto intraprendere per sconfiggere senza interventi terapeutici esterni l'anoressia prima e la bulimia dopo. Vorrei possibilmente un suggerimento. Grazie.

Moira

Nb: nome falso.

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HT Psicologia - Storia di G: disturbo borderline di personalità tra diagnosi e trattamento

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