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Genitorialità adottiva: "il tempo vissuto" nel percorso adottivo

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Genitorialità adottiva: "il tempo vissuto" nel percorso adottivo
Il contributo dello Psicologo nel sostegno alla coppia nel guado delle attese

L'articolo "Genitorialità adottiva: "il tempo vissuto" nel percorso adottivo" parla di:

  • Verso l'identità genitoriale: iter normativo e vissuto emotivo
  • Risorse per il contenimento emotivo, auto-aiuto e sostegno
  • Il ruolo, i compiti e le caratteristiche degli Psicologi
Psico-Pratika:
Numero 108 Anno 2014

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Articolo: 'Genitorialità adottiva: "il tempo vissuto" nel percorso adottivo
Il contributo dello Psicologo nel sostegno alla coppia nel guado delle attese'

A cura di: Valentina Sbrescia
    INDICE: Genitorialità adottiva: "il tempo vissuto" nel percorso adottivo
  • Introduzione
  • Adozione, il contributo reale e auspicabile dello Psicologo
  • L'adozione nel sistema: alcune criticità
  • Le fasi dell'iter adottivo
  • La presentazione della disponibilità e l'attesa dell'avvio dello studio di coppia
  • Nella fase di attesa del decreto di idoneità all'adozione
  • In viaggio verso il figlio
    • Nella fase di attesa dell'abbinamento con il proprio figlio
    • Nella fase di attesa del primo incontro con il proprio figlio
    • Nella fase successiva al primo incontro
  • Conclusioni
  • Nota personale...
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
Introduzione

Il percorso adottivo è costellato di eventi che ne scandiscono le tappe: udienze, decreti, protocolli di documenti, le prime fotografie del bambino/a, l'acquisto di scarpe con numero inferiore a 30 etc.
Nel frattempo, fino all'incontro con il proprio figlio, le emozioni che si vivono sono tante, diverse e intense, e si presentano durante un periodo decisamente lungo, della durata media di 3 anni.

In questo articolo mi occuperò della parte centrale del percorso adottivo, cioè del tempo di mezzo, scandito dalle attese che si snodano tra una fase e l'altra.
Escluderò quindi dalla trattazione le considerazioni relative alla scelta genitoriale e adottiva (temi che ho trattato in precedenti articoli), e le riflessioni sulla relazione genitore-figlio, che prende avvio dalla conoscenza reciproca.

Mi soffermerò sul vissuto emotivo che accompagna la coppia lungo il percorso istituzionale, dalla presentazione della disponibilità all'adozione fino al ricongiungimento con il proprio figlio. Man mano illustrerò come le istituzioni e lo Psicologo gestiscono tale vissuto o come sarebbe auspicabile che lo facessero.
Il campo di analisi sarà ristretto ai percorsi istituzionali che si concludono con un decreto positivo di idoneità all'adozione e, successivamente, con l'incontro con il bambino.
Tralascerò i casi in cui il decreto abbia contenuto negativo o sia addirittura rifiutato, e anche i casi in cui la coppia rifiuti l'abbinamento.

Adozione, il contributo reale e auspicabile dello Psicologo
Genitorialità adottiva:

Negli anni mi sono resa conto, come madre adottiva e come Psicologa, che l'accompagnamento riservato alle coppie durante questo periodo centrale, non tiene affatto conto della variabile tempo, né delle sue conseguenze sul mondo interiore dei futuri genitori.

Spesso il contatto dei professionisti con le coppie ha fini prettamente valutativi (in riferimento alle "presunte" capacità genitoriali); qualche volta si uniscono anche, auspicabilmente, scopi formativi (volti alla costituzione di un'identità genitoriale).
Quasi mai, però, i genitori si sentono accompagnati da una costante presenza di riferimento durante i tempi interni ed esterni di attesa.

È vero infatti che, poiché i coniugi non si sono ancora trasformati in genitori, è difficile abbiano sviluppato capacità genitoriali suscettibili di essere misurate e valutate nel momento in cui si snoda l'indagine di coppia. Quindi, ciò che viene effettivamente indagato è il potenziale di sviluppo di tali capacità.
Il potenziale ha sicuramente molto a che fare con le caratteristiche personologiche di ciascuno, con la storia personale e di coppia.

Ma se noi Psicologi riteniamo possibili il cambiamento e il miglioramento di se stessi attraverso una crescita personale e/o di coppia, non possiamo venire meno al nostro dovere professionale ed etico di accompagnare la coppia verso ciò che non è ancora, ma che intravediamo possa diventare in futuro. Dobbiamo cioè tener conto delle modificazioni interne e affettive che il percorso, nel suo svolgersi, induce nelle coppie che intraprendono il percorso adottivo verso la genitorialità.

Nel fare formazione alle coppie dobbiamo dunque fare attenzione a potenziare le capacità riparative e trasformative (vedi articolo "Adottarsi per adottare" pubblicato su HumanTrainer.com) in modo che possano adattarsi al meglio a scenari futuri per il momento solo eventuali: mi riferisco ad esempio all'atteggiamento della coppia rispetto al vissuto abbandonico di un bambino, alla sua esperienza di essere stato trascurato o maltratto, alla malattia o a caratteristiche personali con cui alla coppia non è mai capitato di confrontarsi fino ad allora, ma anche al rapporto con la scuola, con gli amici della coppia e i futuri amici dei bambini e così via.

Il pericolo è ancorarsi a come le coppie ci sembrano nel momento in cui le conosciamo - ovvero valutiamo - cioè mentre cercano di capire chi siamo noi, cosa vogliamo da loro e fino a che punto possono fidarsi di noi.
Sarebbe invece auspicabile che in corso di valutazione prendessimo - richiamando qui concetti della Psicologia della Gestalt - quella "figura" (cioè l'immagine che loro proiettano e che noi percepiamo in primo piano nella relazione con loro) e accompagnassimo la coppia nel percorso di "autodefinizione". In tal modo la coppia può essere il più consapevole possibile di ciò che è, sotto la "figura" che proietta di se stessa.

La legge richiede di raccogliere informazioni su questi e altri elementi, ma la nascita di una nuova famiglia richiede in più di poterli elaborare perché possano evolversi e magari cambiare nel tempo.

L'adozione nel sistema: alcune criticità

A norma della legge 476/98, che disciplina l'adozione in Italia, i servizi socio-assistenziali territoriali, dopo aver ricevuto il mandato dal Giudice (vedremo poi in dettaglio), dovrebbero:

  1. informare la coppia sull'adozione nazionale, internazionale e sulle altre forme di solidarietà all'infanzia;
  2. preparare gli aspiranti all'adozione;
  3. acquisire elementi utili per la valutazione da parte del Tribunale per i Minorenni (TdM) della idoneità all'adozione della coppia aspirante.

Il tutto deve esitare nella produzione di una relazione, entro il limite temporale di 4 mesi, da consegnare al Giudice. Nella situazione attuale però sono poche le regioni che hanno provveduto a emanare linee guida adatte a rispettare il mandato istituzionale in modo efficace ed efficiente (ad esempio Umbria, Toscana etc.).
La Sardegna, da dove io scrivo, non lo ha ancora fatto!

Ciò che ho riscontrato accadere nella pratica è che i servizi si vedono arrivare pratiche adottive insieme a quelle relative ad abusi, situazioni di povertà estreme, psicopatologie etc. Mancano quindi di una formazione e di una ripartizione mansionale specifiche, che consentano loro di valorizzare sia gli aspetti valutativi che informativi, nonché formativi della loro azione con le coppie di genitori aspiranti all'adozione.
Inoltre, la loro azione è disorganizzata a livello territoriale così che non tutti i servizi lavorano nello stesso modo e con gli stessi standard qualitativi.
Insomma, il quadro che ne risulta è parcellizzato e lacunoso rispetto al territorio nazionale, con qualche "buona pratica" regionale degna di nota.

Un altro elemento critico ha a che vedere con il fatto che quando la formazione è presente nel percorso con i servizi si sovrappone alla dimensione valutativa, perdendo dunque di efficacia. Per ovviare a questo, alcune linee guida regionali (ad es. Umbria) prevedono una divisione delle due fasi per cui quella formativa viene attivata addirittura prima della consegna della disponibilità all'adozione al TdM, e quella valutativa si realizza durante l'indagine di coppia disposta dal Giudice, e quindi dopo la consegna di disponibilità. Altrove, invece, la formazione viene fornita in collaborazione con le Associazioni di familiari o con gli Enti autorizzati per le adozioni internazionali presenti sul territorio di pertinenza.

Stando così le cose mi verrebbe da dire che forse noi Psicologi, in quanto categoria professionale, e quindi a livello nazionale, dovremmo organizzarci per l'accompagnamento delle famiglie adottive, magari stilando noi stessi delle linee guida valide, in collaborazione con le istituzioni, su tutto il territorio nazionale!

Le fasi dell'iter adottivo

La prima fase del percorso adottivo prende avvio con il deposito da parte dei coniugi aspiranti genitori, presso il Tribunale per i Minorenni competente per territorio, della propria disponibilità all'adozione, che sia in ambito nazionale o internazionale.

Il Giudice poi dispone, solitamente presso i servizi sociali del comune di residenza dei coniugi, una valutazione psico-sociale che va sotto il nome di "studio di coppia".
Lo scopo è quello di fornire al Giudice stesso elementi utili a permettergli di prendere una decisione sulla idoneità o meno della coppia "disponibile" ad accogliere come figlio un bambino nato da altri.

Da questo momento in poi la coppia vive in diretta dipendenza dalle azioni che il Tribunale dispone rispetto a loro. E questo sia in termini oggettivi, con:

  • l'attesa della convocazione dei servizi per l'inizio dell'indagine conoscitiva,
  • l'attesa della convocazione in udienza con i Giudici del pool per discutere la relazione redatta dai servizi e le proprie disponibilità specifiche (ad esempio il limite di età del bambino, numero di fratelli, patologie eventuali... che definiscono i reali confini della capacità di accoglienza della coppia),
  • l'attesa dell'emissione del decreto;

sia in termini soggettivi, nella misura in cui gli aspiranti genitori sentono che tutta la loro vita futura è riposta nelle mani di persone sconosciute che agiscono in nome e per conto di un'istituzione lontana dal loro quotidiano.

Se, in base all'analisi dello studio coppia, il Giudice valuta positivamente la capacità genitoriale futura dei coniugi, allora comincia la seconda fase, quella in cui si aspetta l'abbinamento con il proprio figlio/a/i.

Nel caso dell'adozione nazionale è il Tribunale, lo stesso presso cui si è depositata la disponibilità, a effettuare l'abbinamento che ritiene più idoneo tra genitori e bambino.
Nel caso invece di adozione internazionale è necessario dare mandato a un Ente, autorizzato per le adozioni internazionali, di curare all'estero le procedure di abbinamento e adozione, che saranno poi successivamente validate in Italia.

Anche questa seconda fase si sviluppa attraverso attese ed elaborazioni emotive particolari e intense che costituiscono l'occasione, per la coppia, di preparare il loro ambiente, casalingo e psichico, all'arrivo di un bimbo, che porta con sé un proprio bagaglio esperienziale.

Caratteristiche proprie ed estremamente personali ha poi la terza fase, cioè il momento dell'incontro effettivo con il bambino: se la prima foto è un po' come la prima ecografia, quando lo si incontra faccia a faccia è un po' come quando madre e bambino si vedono per la prima volta al termine del parto. È un'emozione indescrivibile e deflagrante!

Per quel che mi riguarda tutto è andato in pezzi all'improvviso, e non lo dico con rammarico o in senso negativo perché poi, con calma e tempo, tutti i pezzi sono tornati a posto, ma non al loro posto, hanno invece ordinato qualcosa di completamente diverso da prima! Spaventoso e magnifico!

Come dicevo all'inizio quindi, le fasi di attesa durante il percorso adottivo sono tante e sono lunghe. Durante la mia personale esperienza adottiva mi sono resa conto che, in generale, in questi momenti prevale nella coppia la sensazione di non avere il controllo, o di perderlo, sulla propria vita nonché sulla propria capacità di autodeterminazione per il futuro. Tuttavia è vero anche che il recupero di un'illusione di controllo sul proprio percorso di vita consente lucidità emotiva e tranquillità.
Alla luce di questo, credo sia necessario restituire alle coppie almeno questa illusione.

Sicuramente non è possibile influire con le proprie azioni sul percorso adottivo in accordo con i propri desideri: questo percorso ha i suoi tempi e non si può fare a meno di rispettarli. Tuttavia la sensazione di adoperarsi per preparare il migliore ambiente di accoglienza possibile per il proprio figlio, così come il condividere il percorso insieme ad altre famiglie, in formazione o già formate, consente di riempire di senso un tempo altrimenti percepito come vuoto e quindi senza fine.

Spesso infatti, le coppie si trovano a sperimentare una spiacevole assenza di prospettive. Ritengo che questa sia una possibilità reale, soprattutto in determinate fasi del percorso che esaminerò con maggiore dettaglio successivamente, e che quindi i Colleghi che a vario titolo si occupano di adozione non possono fare a meno di tenerne conto.

Il tempo che passa "vuoto" è capace di produrre vissuti depressivi nelle coppie e questi, a loro volta, possono interferire nella valutazione che la coppia fa dei tempi del percorso: il tempo rallenta ulteriormente e viene vissuto come ancora più lungo... è un circolo vizioso che, se non gestito, porta i futuri genitori a sprofondare sempre di più, limitando le loro capacità di adattamento creativo alla realtà e di reazione alle difficoltà.

La presentazione della disponibilità e l'attesa dell'avvio dello studio di coppia

Entrando più nello specifico, il percorso inizia con la presentazione di disponibilità all'adozione e con l'inizio di quel processo che va sotto il nome di "studio di coppia".
Questo è uno strumento del Giudice minorile, con il quale egli reperisce tutte le informazioni utili a formarsi un convincimento sulla capacità o meno della coppia, disponibile all'adozione, ad accogliere in famiglia un bambino nato da altri.

La realizzazione di questa indagine viene solitamente affidata dal Giudice ai servizi socio-assistenziali territorialmente più vicini ai coniugi aspiranti genitori.
L'indagine è la medesima sia che si tratti di adozione nazionale che di adozione internazionale. Secondo la norma (L. 476/98), lo studio di coppia deve avere una durata massima di 4 mesi, ma sono rari i casi in cui questo termine viene rispettato, più frequentemente vengono richieste ulteriori proroghe e i tempi si allungano.

Mediamente vengono disposti dai servizi circa 10-12 incontri, alcuni individuali altri di coppia; a volte l'Assistente sociale e lo Psicologo vedono la coppia in maniera congiunta, altre volte lavorano individualmente e poi concordano la relazione finale.
Nel numero totale degli incontri rientrano anche la visita domiciliare dell'Assistente sociale e - auspicabilmente - l'incontro di restituzione, in cui i professionisti leggono la relazione alla coppia e "restituiscono" l'idea che si sono fatti di loro e della loro capacità genitoriale durante i colloqui.

Nella pratica capita spesso che quest'ultima fase restitutiva sia sottovalutata e a volte addirittura evitata dai professionisti, forse per mancanza di tempo o per cattiva prassi lavorativa. Qualunque sia il motivo, se la restituzione viene a mancare, la coppia rimane in uno stato confusionale. In altri termini non riesce a "chiudere la gestalt" (ossia a dare un senso a ciò che sperimenta) e a sentire internamente terminata la fase valutativa, con la conseguenza di non essere pronta a iniziare il nuovo "ciclo di contatto" (cioè a fare spazio al realizzarsi di nuove esperienze) dell'udienza con i giudici: non sa cosa aspettarsi ma immagina che la relazione che li precede sia di fondamentale importanza nel presentarla ai Giudici.

Sarebbe importante che potesse almeno realizzarsi un'azione restitutiva "diluita" durante tutti gli incontri con i servizi. Sebbene non sostituisca la lettura della relazione, può comunque essere funzionale alle esigenze formative del percorso, può cioè consentire agli aspiranti genitori l'elaborazione interna delle proprie disponibilità personali all'accoglienza. Ritengo perciò utile che i professionisti restituiscano le proprie opinioni alla coppia sia in itinere che, in maniera più formale, alla fine del percorso.

Quali sono gli elementi fondamentali da indagare ai fini della relazione?
La legge 476/98 elenca i seguenti: «acquisizione di elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori adottivi, sul loro ambiente sociale, sulle motivazioni che li determinano, sulla loro attitudine a farsi carico di un'adozione internazionale, sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze di più minori o di uno solo, sulle eventuali caratteristiche particolari dei minori che essi sarebbero in grado di accogliere, nonché acquisizione di ogni altro elemento utile per la valutazione da parte del tribunale per i minorenni della loro idoneità all'adozione».

Queste aree vengono poi interpretate nella pratica in modo diverso sul territorio nazionale. Spesso, dove presenti, le linee guida regionali specificano ulteriormente gli ambiti di indagine. Depositata la propria disponibilità all'adozione, inizia per la coppia la prima grande attesa: quella della telefonata dei servizi sociali per fissare il primo appuntamento della serie.
Quando questa telefonata arriva si ha finalmente la percezione che qualcosa si stia muovendo, che si stia realmente entrando nel sentiero che porta alla formazione della propria famiglia: c'è l'entusiasmo ma anche l'imbarazzo e il timore di dover condividere aree di vita solitamente private e di doverle sottoporre al giudizio altrui.

Diventa strategico quindi un atteggiamento accogliente da parte dei professionisti, di ascolto empatico e di chiarezza rispetto agli obiettivi e agli argomenti che verranno trattati durante gli incontri. Se da un lato quindi è nostro compito contenere le ansie relative al giudizio, dobbiamo anche consentire alle persone che abbiamo davanti di capire con chiarezza cosa succederà e perché. In questo modo potremo da un lato consentire loro di mantenere la sensazione di poter controllare il proprio percorso di vita dall'altro favorire una maggiore compliance (adesione al percorso) e collaborazione da parte loro.

Mi sembra importante specificare inoltre che quando incontreremo nelle persone (e succederà sicuramente) aspetti che riteniamo incompatibili con l'adozione di un minore, dovremo considerarli non come ostativi ma come elementi da elaborare.
La coppia dovrà masticarli e digerirli (magari con il nostro supporto), in modo che la scelta per cui opterà, non ancora scontata, pro o contro l'adozione, diventi il più consapevole possibile.

In altri termini, è importante che noi professionisti ci avviciniamo alle coppie il più possibile privi di pregiudizi, sia verso l'adozione (che non è per tutti e che non serve a risolvere tutti i problemi dell'infanzia) sia verso le persone (che possono presentarsi con gradi diversi di elaborazione delle proprie scelte).

Il nostro scopo deve infatti essere quello di lasciare la coppia il più consapevole e motivata possibile verso la propria scelta.
Questa può anche essere una matura rinuncia al percorso adottivo oppure una serena accettazione dei limiti della propria scelta (non tutti sono in grado di accogliere neonati così come non tutti possono accogliere preadolescenti per esempio).

Nella fase di attesa del decreto di idoneità all'adozione

La prima fase è quindi scandita dagli incontri e dai colloqui che fanno parte dello studio di coppia. Nel caso dell'adozione internazionale, l'esito di queste indagini deve essere formalizzato in un decreto di idoneità o non idoneità all'adozione.
Nel caso invece dell'iter di adozione nazionale non è necessario alcun atto formale poiché è lo stesso Tribunale che, ritenendo la coppia idonea all'adozione, la "abbina" al minore per cui la ritiene la famiglia migliore possibile.

In ogni caso, l'elemento caratteristico di questa fase del percorso è la consapevolezza da parte degli aspiranti genitori che un gruppo di persone sconosciute, anche se al termine di una serie di colloqui conoscitivi, dovrà decidere se i coniugi saranno in grado o meno di diventare genitori di un bimbo che diventa figlio tramite adozione.

In questo periodo sono tante le emozioni che la coppia vive e, come spesso accade, riempiono tutto l'orizzonte esperienziale, cioè colorano tutti gli altri accadimenti della vita quotidiana. Si parla adesso espressamente di entusiasmo, euforia, di desiderio di fare tutto ciò che è necessario nel più breve tempo possibile.
Contemporaneamente il tempo non passa mai abbastanza in fretta.

L'accento è posto sul fare, e l'ansia di raggiungere al più presto l'obiettivo "decreto" mette in secondo piano tutto quel lavoro interno che è invece fondamentale per il raggiungimento dell'obiettivo stesso.
Quindi da un lato, poiché il percorso adottivo è fatto di momenti che ne scandiscono lo scorrere, alcuni di essi catalizzano l'energia sia mentale che emotiva dei futuri genitori. Capita così una cosa molto strana: quello che accade nel giro di pochi minuti, come ad esempio la ricezione di una mail con una foto allegata (quella del bambino) occupi completamente l'orizzonte mentale e riempia il cuore, così da renderlo l'unico evento realmente accaduto in un lungo lasso di tempo; l'intermezzo tra un evento e un altro, semplicemente non esiste. Dall'altro lato, la percezione che il tempo trascorso in attesa del figlio sia un tempo vuoto e non adeguatamente riempito, dà la sensazione di non fare abbastanza, e che il tempo non passi mai.

Come madre adottiva quello che ho imparato, dalla mia storia e da quella di chi mi sta intorno, è che questo è un tempo prezioso, e che non torna più: è il tempo per interrogarsi costantemente, come individui e come coppia, sul proprio modo di diventare genitori e sulla propria capacità di diventarlo per un bimbo che ha iniziato la sua storia di vita lontano da noi.

Questo è il tempo per riflettere sulla propria eventuale incapacità di generazione fisica di un figlio, o sul proprio desiderio di evitarla accogliendo un bimbo già bell'e fatto. È il momento di lasciare delusioni e rimpianti e di andare oltre.
Normalmente questo interrogarsi viene visto come secondario dalla coppia che, presa dalla morsa del rapporto con i servizi - che devono allo stesso tempo valutare, informare e formare - si concentra sul tipo di immagine che vuole fornire ai propri valutatori e sulla scelta dell'Ente per le adozioni internazionali, che renderà reale il desiderio di famiglia.

Ciò che si cerca di tenere a bada e di non vedere, è la paura di essere valutati non idonei e l'ansia dell'attesa che, unite al desiderio di arrivare al proprio figlio, alterano la percezione del tempo; ci si sposta sul "fare", come se questo fosse una "cintura di sicurezza", e si cerca di riempire il tempo per recuperare il senso del controllo e non entrare in contatto con i sentimenti negativi. E più il tempo passa, maggiore è l'intensità della difesa interna eretta a protezione dalla propria sofferenza.

Mentre si aspetta, il decreto (e - in caso positivo - il figlio poi) il tempo che trascorre è percepito come vuoto e immobile. Il sentimento che prevale nella coppia è la frustrazione e questo può portare al senso di colpa per non aver fatto tutto ciò che sarebbe stato opportuno e utile fare per accorciare i tempi di attesa.

Come Psicologa ritengo che in questa fase, in cui ancora è impossibile sapere quale sarà la decisione dei Giudici rispetto all'idoneità o meno della coppia, siano di grande sostegno i gruppi di genitori che consentono un confronto tra pari. In questa fase non mischierei le famiglie adottive con quelle in attesa, perché questo potrebbe consentire aspettative non realistiche in questa fase del percorso. Sarebbe invece maggiormente utile la direzione da parte di un professionista che possa intercettare e contenere le ansie dei partecipanti e il valore che queste hanno nel rapporto con se stessi e con un eventuale figlio, già giudicato "inaccettabile" da qualcuno che verosimilmente lo ha abbandonato.

È vero infatti che tutti siamo stati abbandonati da qualcuno nella nostra vita, nella misura in cui siamo diventati adulti, e tutti siamo stati adottati da qualcuno, nella misura in cui almeno il nostro rapporto di coppia è soddisfacente per noi.
L'argomento adottivo può quindi essere in ogni caso propulsivo di uno sviluppo personale e, mentre aiutiamo le coppie a non sentirsi sole, possiamo comunque continuare a prepararle per quel che sarà, sia in caso di decreto positivo che negativo.

In viaggio verso il figlio

Ottenuta l'idoneità all'adozione, da questo momento in poi (con in mano il decreto di idoneità nel caso di adozione internazionale) inizia forse l'attesa più lunga e più vuota in assoluto: per chi aspetta un abbinamento in adozione nazionale possono passare fino a tre anni (tanto dura la "validità" della disponibilità offerta al TdM), passati i quali senza risultati è possibile che si debba ricominciare tutto daccapo!

Chi invece intende proseguire lungo il percorso internazionale ha un anno di tempo di validità del decreto di idoneità per scegliere l'Ente per le adozioni internazionali cui affidare il futuro della propria famiglia. In quest'ultimo caso non è possibile valutare i tempi di attesa per l'abbinamento con il proprio figlio, perché le variabili in gioco sono tantissime: serietà dell'Ente, politica estera italiana e straniera, condizioni del paese di origine dei bambini etc.

In ogni caso possiamo qui delineare alcuni dei momenti principali che scandiscono il proseguo del percorso:

  • l'abbinamento genitori-figlio/i;
  • il primo incontro con il bambino;
  • l'inizio della vita insieme.

Mi dispiace dover dire che in queste fasi i servizi istituzionali sono nella maggior parte dei casi latitanti.

In sintesi, nel nostro sistema, non è previsto nessun intervento istituzionale durante l'attesa di abbinamento (sia nazionale che internazionale), mentre questo è delegato in toto ai professionisti impiegati dall'Ente cui ci si è affidati nel percorso internazionale.
È previsto un breve contatto durante la fase di incontro del bambino nell'adozione nazionale (per l'internazionale si delega alle prassi dell'Ente cui ci si è affidati).

Nel post-adozione internazionale, inoltre, si verifica spesso una sovrapposizione di colloqui e relazioni in quanto l'Ente è tenuto, su richiesta dei Paesi di origine, a relazionare sul benessere dei bambini adottati per un periodo variabile a seconda delle prassi degli stessi Paesi di origine.

Come Psicologa, ritengo invece che il post idoneità all'adozione (e il post adozione vero e proprio) dovrebbe essere sempre seguito e sostenuto dai servizi locali su disposizione del TdM. In questa fase la coppia dovrebbe essere sostenuta con:

  1. colloqui con i professionisti dei servizi, solitamente assenti, allo scopo di non far perdere alla coppia il riferimento e il contenimento emotivo che essi rappresentano; in più vedrei con favore un potenziamento dell'azione dell'Assistente sociale che, con una o due visite domiciliari in questo periodo, può percepire in maniera più diretta lo sforzo della coppia per preparare uno spazio adeguato al figlio;
  2. gruppi di auto-aiuto tra coppie in attesa e coppie adottive, gestiti dai professionisti dei servizi o in collaborazione con le associazioni di famiglie adottive, in modo da favorire il confronto esperienziale e il sostegno emotivo.
    L'obiettivo è quindi quello di fornire un ambiente accogliente in cui i sensi di colpa, la frustrazione e il vissuto depressivo possano esprimersi, elaborarsi e, nel migliore dei casi, risolversi.

Oggi come oggi, questi strumenti sono quantomeno sottoutilizzati, per mancanza sia di personale adeguatamente preparato che di fondi da parte della pubblica istituzione; inoltre spesso si delega al mondo associativo e privato la realizzazione dei gruppi di auto-aiuto, senza tuttavia cercare forme collaborative intermedie che possano conferire loro "autorevolezza" e forza tipiche delle azioni pubbliche.
Sarebbe perciò auspicabile cercare forme collaborative tra pubblico e privato sempre più numerose e creative. Insomma, non si possono far sentire abbandonate le coppie che accoglieranno bambini abbandonati!

Nella fase di attesa dell'abbinamento con il proprio figlio

Questa fase dell'iter adottivo è caratterizzata da una forte incertezza: l'attesa di un abbinamento e l'impossibilità di immaginarsi un termine temporale entro cui questo dovrà avvenire, pongono la coppia in una situazione in cui mancano le certezze sia da un punto di vista oggettivo (la tempistica del procedimento) che dal punto di vista soggettivo (le proprie reazioni nel corso dell'attesa e poi verso l'abbinamento o mancato abbinamento con il proprio figlio).

Ci si sente immobili e impotenti di fronte al tempo che passa, e ogni giorno in cui non è successo niente e non si è ricevuta la telefonata tanto attesa, lascia un senso di delusione nel cuore di chi aspetta.
Allo stesso tempo, nella speranza di trovare una ragione alla lunga attesa, si passano in rassegna tutti gli eventi e le ancore emotive che si sono marcate lungo il percorso.

Ci si chiede se le scelte siano state le più corrette, se le disponibilità date siano o meno verosimili: disponibilità all'accoglienza troppo ampie (disponibilità ad accogliere in famiglia bambini con disabilità e invalidità di vario genere e grado) possono velocizzare l'iter o creare disappunto nei Giudici?
Ci si sente realmente in grado di affrontare ciò per cui ci si è proposti? E così via.

Tutto viene rivalutato. Tutto viene ripensato.
Ora più che prima ci si pone di fronte a se stessi in modo onesto, si cerca di valutare se stessi e la propria capacità genitoriale in modo generalmente più lucido, in quanto non "pressati" dal giudizio altrui. Tuttavia, il tempo che passa in silenzio lascia spazio a un'ampia gamma di emozioni, da quelle più positive a quelle più catastrofiche.

Ricordo che in quel periodo, insieme a mio marito, un giorno immaginavo le cose buone che avrei potuto cucinare con nostro figlio, il giorno dopo mi dicevo che la nostra instabilità emotiva (che ora riconosco come effetto della situazione di attesa) non avrebbe mai concesso al bambino un ambiente di crescita sufficientemente sereno: dopotutto lui o lei aveva già vissuto un'instabilità emotiva prolungata nel tempo!

Dal mio punto di vista un contenimento emotivo della coppia in questa fase è fondamentale.
In questo momento particolare infatti possono emergere "in figura" aspetti delle personalità - individuali e di coppia - rimasti sotto soglia nelle fasi precedenti, che possono incidere nella costruzione di un legame affettivo tra genitori e figli.
Solitamente infatti, a questo punto del percorso, il fantasma valutativo è meno pressante di prima e quindi lo sono anche le difese personali. Se i coniugi continuano a vivere come se fossero sotto assedio, c'è da chiedersi il perché.

Chiaramente l'intervento dello Psicologo, in questo momento, non deve avere finalità valutative rispetto alla validità dei futuri genitori, ma prettamente elaborative.
Questa fase si delinea come una finestra importante sul funzionamento personale e di coppia,che noi professionisti dobbiamo, con delicatezza, cercare di mantenere aperta, poiché ci consente, ora più di prima, di lavorare per il futuro benessere del bambino e della famiglia che si creerà.

È questo il momento in cui realmente è possibile "accendere l'interruttore" delle competenze genitoriali che diverranno poi concrete quando il figlio entrerà in casa.
È proprio ora che il "fare qualcosa" si declina più proficuamente con l'associarsi ad altre coppie adottive, che siano ancora in attesa o che abbiano già i figli a casa, magari in un gruppo di auto-mutuo aiuto.

Gli Operatori sociali che hanno seguito la coppia durante l'iter valutativo dovrebbero perciò, in questa fase, farsi propulsori dell'affiliazione a gruppi di questo tipo e attivare dinamiche di sostegno fra pari così da non lasciare le coppie da sole nemmeno ora.

Nella fase di attesa del primo incontro con il proprio figlio

Ecco, finalmente! Arriva la telefonata!
Che sia il Giudice del Tribunale dei Minori o il responsabile dell'Ente, quella telefonata arriva sempre nel momento in cui non te lo aspetti e non sei preparato a reggere l'onda d'urto emotiva.
Normalmente cioè, nonostante il lungo tempo in cui ci si è immaginati come sarebbe andata, si scopre di essere assolutamente impreparati e disorientati, ma anche incredibilmente euforici!

Per dirla tutta, nel mio caso, la telefonata è arrivata a mio marito mentre era al supermercato a comprare il pesce... mi ha chiamata con urgenza e mi ha dato la notizia nel parcheggio del supermercato non appena scesa dalla mia macchina.
Ho fatto un balzo indietro sbattendo sulla portiera, e tanta è stata la sorpresa che mi sono subito spaventata: non dovevo più immaginarlo, ero diventata madre e non sapevo ancora di chi, tanto meno sapevo come fare a comportarmi da madre da quel momento in poi. Per farla breve ho avuto il raffreddore per tre mesi filati!

Solitamente la telefonata serve solo a fissare un appuntamento, anche perché certe notizie (quelle sull'identità del/i bambino/i) non si possono dare al momento.
Questo vuol dire che finché non si arriva al colloquio, si resta sospesi in una nuvola, confusi, speranzosi, preoccupati di dover dire di no a un abbinamento che non si è in grado di sostenere.

Ci si chiede anche come riuscire a controllarsi, per non fare esplodere le proprie emozioni in un pianto dirotto, mantenendo un'apparenza di "dignità", nonostante la profonda felicità di conoscere finalmente il nome e il volto del proprio figlio/a e la sua storia.
Da quel momento fino all'incontro in carne e ossa con il figlio, le fantasie che erano rimaste vaghe prendono una forma più concreta.

I genitori si chiedono in ogni momento: "Cosa starà facendo ora?".
"Come avrà vissuto le sue esperienze di vita fino ad ora?". "Sarà in buona salute?".
"Sarà trattato bene?". "Sceglierebbe proprio me come genitore se potesse?".
"Sono proprio io la madre/padre più adatta/o a lui/lei, e capace di farlo sentire sinceramente figlio/a?"
... e così tante altre domande e tanti dubbi che troveranno risposta solo dopo l'inizio della vita insieme.

Spesso ciò che i genitori dimenticano è che nessun figlio ha mai potuto scegliere il proprio genitore, e che la prima reazione dei loro figli non sarà altro che lo specchio delle loro stesse paure: la paura del bambino di fronte ai due sconosciuti che diventeranno mamma e papà, spesso riflette la paura dei genitori di non essere riconosciuti e accettati come tali dal figlio già al primo incontro. E credo che questo sia un diritto legittimo dei nostri figli.

Ci vuole tempo per costruire le relazioni.
Anche nel rapporto tra genitori e figli biologici l'amore, pur se incondizionato, necessita di conoscenza reciproca, e questa non può che avvenire nel tempo, nella sperimentazione quotidiana dei sentimenti, delle idee e dei comportamenti.

Non c'è mai niente di scontato nei rapporti tra le persone, in nessun tipo di rapporto. Il tempo, anche in questa fase del percorso, è una variabile fondamentale, perché amplifica le ansie e le preoccupazioni: tutto sommato a preparare il viaggio in terra straniera o fino alla casa famiglia italiana dove risiede il bimbo si impiega poco, ma il resto del tempo come si fa a passarlo mantenendo un certo "equilibrio mentale"?
Non si può fare a meno di pensare a quello che potrebbe andare "storto"!

Per quanto riguarda me, io ho passato il tempo a ripetermi: "Caspita! Sono diventata madre per davvero!", nel tentativo di diventare realmente consapevole, di far "precipitare", come in un composto chimico che passi dallo stato gassoso a quello solido, l'informazione ricevuta in una forma concreta che definisse il completamento della trasformazione personale.

Nella fase successiva al primo incontro

Cosa succede dopo il primo incontro con il proprio figlio/a?
Da un punto di vista procedurale non c'è un percorso valido per tutti in tutto il mondo. Quando l'incontro avviene in Italia, l'inizio della vita in e di famiglia è preceduto da una fase detta di "avvicinamento" in cui genitori e figli hanno la possibilità di conoscersi meglio. Questo avviene anche in altri Paesi e dipende dalle leggi e dalle consuetudini locali.

Durante questo periodo di familiarizzazione, i bambini in genere restano nell'istituto in cui sono stati accolti allo scopo di farli sentire un po' più sicuri e di non strapparli improvvisamente dagli oggetti o dalle persone con cui hanno stabilito un attaccamento, seppure temporaneo. In altri paesi invece, come è capitato ad esempio in Vietnam o in Russia, il bambino viene consegnato direttamente ai nuovi genitori, con cui passeranno un breve periodo ancora nel loro paese d'origine.

Altre volte vengono celebrati riti di passaggio o di consegna del bambino, da parte della famiglia d'origine alla famiglia adottiva (eventualità possibile in alcuni paesi africani). Queste prassi sono comunque tipiche del Paese d'origine, e quindi i genitori ne saranno informati per tempo. In ogni caso, da quel momento in poi il tempo è compresso, si ha la sensazione che tutto succeda contemporaneamente o quasi, e manca la possibilità di "digerire" gli eventi.

Il tempo è sempre al presente, ci si trova immersi in un costante qui e ora: si perde ogni prospettiva. Non intendo che non si sappia cosa succederà a distanza di un'ora, ma che si è profondamente immersi nel rapporto da averlo costantemente "in figura" davanti agli occhi: è l'unica cosa importante, il resto del mondo può aspettare!
E questo stato ha la proprietà di durare un bel po' di tempo, anche se non è stimabile a priori! Naturalmente questo non è da considerarsi patologico, anzi è funzionale alla creazione del legame di attaccamento: dei figli verso i genitori e dei genitori verso i figli perché, dal mio punto di vista, l'attaccamento è bidirezionale, e tutti nella nuova famiglia devono portare avanti questo lavoro affettivo. È la costruzione della simbiosi, che per i figli adottivi si crea fuori dalla pancia e non dentro.

Come in ogni sviluppo personale, c'è un momento in cui si passa dal rapporto diadico a quello triadico, un momento in cui il pensiero si inserisce nella dinamica di soddisfacimento dei bisogni. Questo è il momento in cui si recupera la tridimensionalità, la profondità di spazio e tempo. Recuperare la profondità è indispensabile per pensare le esperienze passate e future dei propri figli, perché senza "pensabilità" non c'è elaborazione né cognitiva né emotiva, e così non si può avviare il processo di "riparazione" delle ferite (vedi articolo "Adottarsi per adottare" pubblicato su HumanTrainer.com) e nemmeno quello di proiezione nel futuro e di progettazione personale.
Quando si ritrova la profondità, finalmente il tempo riprende a scorrere!

In questo punto del percorso, noi Psicologi abbiamo il compito di facilitare la creazione dei legami familiari. E questo è abbastanza intuitivo. Ma come?
Beh, voglio essere un po' provocatoria: enfatizzando i meccanismi di difesa!
Non tutti, ma uno in particolare. E non con tutte le sue manifestazioni tipiche, ma promuovendo il potenziale evolutivo che le "resistenze al contatto" (meccanismi di difesa in termini gestaltici) contengono.
Mi sto riferendo forse alla più primitiva delle resistenze: la confluenza.

La confluenza viene definita da Fritz Perls (fondatore dell'approccio gestaltico) come l'incapacità della persona a porre confini tra sé e l'ambiente che lo circonda.
Una persona confluente è come un feto che si trovi ancora nel ventre materno e che sente, si sostenta e vive attraverso il corpo del suo ambiente, cioè la madre.
Sergio Mazzei (Psicoterapeuta ad approccio gestaltico) definisce così l'individuo caratterizzato da un atteggiamento confluente verso la vita:

«Essere confluente con l'ambiente, con l'oggetto, significa che non si sa chi si è o che si sperimenta davvero e si risponde soltanto alle aspettative dell'ambiente. Quando sono confluente non ho gusti miei o meglio evito di averli, non ho preferenze, sono fuori contatto dalle mie emozioni, dai miei sentimenti, non mi faccio domande e sono scarsamente o per nulla consapevole di tutto ciò.
La confluenza può essere più o meno grave. Nella sua forma più severa non vi è la minima capacità di differenziazione. Si è totalmente fuori contatto e si vive in uno stato di simbiosi, di fusione, originato dal rapporto con la madre, come se si avesse una specie di corpo con due teste (io e te siamo uno)».

Allo stesso tempo, la caratteristica funzionalmente positiva della confluenza ha a che fare con la capacità di percepire un "noi", di fare "gioco di squadra", di mettere in figura le necessità del gruppo (famiglia) e della relazione empatica, piuttosto che le proprie necessità individuali. Ecco, queste caratteristiche sono quelle da sviluppare nel momento in cui la famiglia effettivamente si forma.
L'effetto collaterale è probabilmente quella sorta di ottundimento, di nebbia e confusione di cui ho parlato precedentemente: quando le distanze sono troppo ridotte è impossibile individuare e definire gli oggetti che ci circondano.

Credo quindi che noi Psicologi dovremmo favorire attivamente un atteggiamento confluente in questo periodo, perché funzionale alla costruzione di legami.
Dovremmo anzi preoccuparci, in questo specifico momento, di atteggiamenti che marcano troppo profondamente le differenze individuali, che non trovano punti in comune o bisogni condivisi tra genitori e figli.

Tali atteggiamenti rappresentano probabilmente delle resistenze che lavorano contro la costruzione del legame e sottendono quindi qualche tipo di paura e difficoltà dell'individuo che le mette in atto, rispetto all'intimità richiesta dal rapporto con un figlio.
Altrettanto, quando invece la confluenza non accenna a diminuire nel tempo, se i genitori non si svegliano dal torpore e non riacquistano prospettiva e capacità di pensiero autonome, è necessario approfondire il loro vissuto e spingerli invece verso una maggiore differenziazione, verso il riappropriarsi di una capacità adulta di relazionarsi con la propria vita e con i suoi oggetti.

È vero, genitori e figli si incontrano da sconosciuti, ma nonostante questo gli uni e gli altri sono già sommersi dalle aspettative e dalle fantasie della controparte.
Questo è però funzionale all'incontro e non mi preoccuperei di questo se non in caso di proiezioni inverosimili! Ci sarà il tempo per riconoscersi diversi, ma questo è il momento di scoprirsi simili, quantomeno nei sentimenti e di "incorporasi" a vicenda, quasi come un bambino che rientra nel corpo della madre per trovare il calore e il nutrimento che gli servono a nascere e crescere nuovamente.

Conclusioni

Concludendo, credo che in generale lo Psicologo che si occupa di adozione debba avere poche caratteristiche ma ben definite: conoscenza dell'argomento, capacità interpersonali di accoglienza e di sospensione del giudizio, capacità di adottare se stesso. Inoltre dovrebbe fare poche cose, ma chiare: assecondare le fasi del percorso individuale e di coppia, facilitando la presa di contatto emotiva dei coniugi con il loro progetto di vita e di famiglia e le loro stesse capacità riparative e trasformative, facilitare l'ingresso e poi l'uscita dalla fase di confluenza evolutiva caratteristica della formazione concreta della famiglia.

Non posso qui dire se realmente i colleghi, nel sistema attuale, assolvano a questi compiti perché, sebbene il sostegno post adozione sia istituzionalmente previsto, non è comunque disciplinato in maniera tanto specifica rispetto ai contenuti e alle modalità. Inoltre, largo spazio è lasciato, all'interno dei servizi, alla professionalità e umanità delle persone che vi lavorano: non posso escludere che ci possano essere persone responsabili, preparate e di cuore in tutti i servizi, così come non posso escludere che non ci siano.

Nota personale...

Per quanto riguarda me, invece, sono passati tre anni da quando ho presentato la disponibilità al Tribunale fino a quando ho conosciuto le mie figlie.
È passato un anno e mezzo da quando abbiamo cominciato la nostra vita insieme.
Ne sono successe di cose, dentro e fuori di me! Durante i primi sei mesi di convivenza, da brava Psicologa, non ero in grado nemmeno di descrivere come mi sentivo, persa nella nuvola della confusione più totale.

Ora posso guardarmi indietro e affermare che le difficoltà, affrontate insieme a mio marito prima e a marito e figlie ora, sono esattamente quelle che dovevo superare.
Niente di più e niente di meno.

Durante il cammino ho apprezzato il confronto a due e anche quello con la Psicologa dei servizi, soprattutto quando era focalizzato alla formazione personale e alla comprensione di ciò che ci sarebbe successo; ho apprezzato il rapporto di amicizia e sostegno reciproco con le altre coppie adottive con cui abbiamo stretto legami, perché mi ha consentito di farmi un'idea più concreta di ciò che avrei potuto aspettarmi dalla vita.

Ho tratto forza dall'impegno in un'associazione di famiglie adottive il cui scopo è quello di creare cultura dell'adozione, perché mi ha dato la misura delle limitazioni e delle potenzialità del mondo in cui avrei inserito le mie figlie una volta in Italia, e perché mi ha permesso di non sentirmi inutile mentre le aspettavo; ho tratto consapevolezza dall'esperienza inaspettata di poter scrivere la mia esperienza negli articoli che voi leggete.

Ringrazio la vita che mi ha permesso di prendermi il tempo necessario per fare un passo dopo l'altro, anche quando il mio desiderio era di correre.
Ringrazio mio marito per aver aspettato il momento giusto insieme a me.
Ringrazio le mie figlie per avermi ricordato, giorno dopo giorno, che i loro tempi vanno rispettati anche quando sono più lenti dei miei.

Bibliografia
  • Mazzei S., Meccanismi di difesa e resistenze al contatto, "Rivista di Istituto Gestalt e Body Work"
    www.igbw.it/RIVISTA/Meccanismi%20di%20difesa%20e%20resistenza%20al%20contatto.pdf
  • L. 31 dicembre 1998, n. 476, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L'Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184 , in tema di adozione di minori stranieri"
  • Gangemi A., Università di Cagliari, Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma, Miceli S., Università degli Studi di Palermo, Poster "L'influenza dell'emozione di colpa sulla percezione del tempo"
    www.unipa.it/frapax/documenti/em_o_07_gangemi.pdf
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