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Il falso sé nel setting psicoanalitico

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Il falso sé nel setting psicoanalitico

L'articolo "Il falso sé nel setting psicoanalitico" parla di:

  • Come nasce il Falso sé
  • Il Falso sé nella relazione terapeutica
  • Trovare il Vero sé
Psico-Pratika:
Numero 175 Anno 2021

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Articolo: 'Il falso sé nel setting psicoanalitico'

A cura di: Rebecca Farsi
    INDICE: Il falso sé nel setting psicoanalitico
  • Introduzione
  • La formazione del falso sé
  • Il falso sé e la relazione terapeutica
  • Conclusioni
  • Riferimenti bibliografici
  • Altre letture su HT
Introduzione

Parlare di Falso Sé rende necessario il riferimento ad un concetto introdotto dalla teorica di Winnnicott (1968) e concernente una modalità comportamentale, tipica di alcuni individui, volta alla manifestazione di un'eccessiva condiscendenza, obbedienza e volontà di compiacimento altrui: una sorta di personalità costruita sull'apparenza, in cui il volere degli altri è anteposto al proprio. Data l'indubbia funzionalità sociale di questa dimensione, se ne potrebbe prospettare un'analogia con l'istanza Superegoica freudiana, generata dall'introiezione di un oggetto genitoriale "censore" che nel tempo si trasforma in una componente psichica propria del soggetto introiettante (Freud, 1905).

È forse più opportuno parlare di affinità, anziché di analogia tra i due aspetti, che si differenziano nella funzione e nell'intento: il Falso Sé è una struttura inautentica della personalità che il soggetto ha strutturato non tanto in risposta ai divieti e alle proibizioni imposti dal genitore, quanto all'incapacità di quest'ultimo di comprendere i suoi reali bisogni e di consentirgliene non solo la libera espressione, ma la stessa consapevolezza. La natura inautentica del Falso Sé non deriva, quindi, da una volontà censoria del soggetto, ma dalla sua incapacità di avere accesso cosciente ai propri bisogni reali, e dunque al vero Sé, che costituisce la dimensione più intima e profonda del soggetto, il coacervo delle sue potenzialità spontanee e non apprese. Il suo gesto creativo (Winnicott, 1960).

La funzione del Falso Sé non è soltanto volta al desiderio di compiacere la volontà del genitore per mantenere un legame affettivo con lui - come avviene nell'istanza Superegoica - ma anche quella di porsi come barriera difensiva del Vero Sé dagli attacchi predatori dell'ambiente esterno. E attraverso questa funzione difensiva, paradossalmente, esso afferma l'esistenza di quell'autentico Sé che avrebbe la finalità di negare.

La formazione del falso sé
Il falso sé nel setting psicoanalitico

I doveri della madre buona, secondo Winnicott, non si discostano molto dall'adempimento di quelle competenze ricomprese nella c.d. genitorialità intuitiva, fatta di sensazioni e pulsioni biologiche che nella gestazione e nel rapporto diadico accuditivo trovano il proprio naturale potenziamento (1960).
Tramite la funzione di holding la madre stringe tra le braccia il bambino contenendone le angosce esistenziali: la sua presenza rassicurante contribuisce a costruire i limiti di uno spazio fisico - ma soprattutto psichico - in cui il bambino si sente accolto, sostenuto, rassicurato, incoraggiato nelle prime espressioni di sé. La gestualità con la quale la madre manipola il figlio lo rende consapevole dei suoi confini corporei e della sua identità, orientandolo verso il mondo esterno; per quanto in questa fase il bambino sperimenti uno stato di dipendenza assoluta dalla madre, ciò non esclude tuttavia la possibilità che egli inizi a percepirsi come un nucleo esistenziale autonomo, attivo e volitivo.

Il bambino cerca di affermarsi attraverso la presenza della madre che risponde ai suoi bisogni e alle sue necessità senza anticiparle, ma consentendogli di esprimerle autonomamente, creando un legame relazionale con l'oggetto contestuale specifico di cui ha bisogno (Winnicott, 1960). Questo lo porterà a sviluppare la credenza - illusoria ma funzionale all'evoluzione - di aver creato egli stesso l'oggetto e di poterne disporre, in una sorta di onnipotenza, ogni volta in cui ne avvertirà il bisogno.
Se il bambino sente di poter creare da solo ciò che gli serve, egli potrà proiettare la sua necessità specifica in un oggetto, dando inizio al processo di simbolizzazione emotiva necessaria alla costruzione del Sé personale e interpersonale. L'emozione prende la parvenza di un simbolo tramite il quale potrà essere espressa, contenuta, controllata, e il mondo esterno comincia a non essere percepito più così terribile e minaccioso, pur in assenza della madre.
Sono i primi passi verso l'indipendenza che proprio la madre deve consentire, attraverso una condotta di accudimento pronto e solerte, ma non invasiva: la madre ambiente si distingue dalla madre oggetto perché non impone al bambino le proprie necessità, non gliele prospetta in via impositiva anticipandone il contenuto; ella non si lascia ispirare né da un eccessivo zelo di accudimento, né dalla volontà di disegnare un Sé ipertrofico al posto di quello del figlio, costringendolo ad introiettare i suoi stessi bisogni in negazione dei propri.

Una madre che non lascia il bambino libero di esprimersi, una madre opprimente che consegna al figlio l'oggetto prima ancora che lui glielo chieda, compie un atto dall'incalcolabile disvalore evolutivo. Con una simile condotta educativa il bambino non svilupperà una coscienza del Sé senza la madre, né potrà costruire quel senso di onnipotenza che gli consente di sviluppare un Sé indipendente, solido e coeso anche nella dimensione psico-fisica.
Non si crea, in presenza di una madre oggetto, l'illusione di quei legami onnipotenti essenziali alla creazione del simbolo. Le emozioni vengono così ridotte ad un sovraccarico di eccitamento istintuale, frutto di un'energia non simbolizzata che potrà essere espulsa dalla mente solo attraverso acting out o percezioni patologiche che si rifletteranno sul soma (Winnicott, 1960).
Anche la possibilità di pensare appare incompleta perché satura di componenti emotivi e cognitivi inautentici - quelli della madre - cui il bambino e in seguito l'adulto si rapporterà in una funzione introiettiva rendendoli propri. Ne deriverà un comportamento appiattito sulla realtà esterna, impersonale e sempre pronto a modificarsi sulla base delle istanze volitive altrui.

Il falso Sé è conformista, cedevole, conciliante. La sua dimensione, per certi aspetti, potrebbe esser definita "ipocrita": con ciò non si vuol negare come il Falso Sé svolga una funzione di indubbio valore sociale, e come ogni essere umano debba farne necessariamente uso in tutte quelle circostanze legate alla sfera di adattabilità interpersonale. Ma in una dimensione psichica non patologica ciò non deve impedire l'espressione del vero Sé in circostanze meno controllate e formali.
Al contrario, nei casi patologici, il Falso Sé tende ad annichilire il vero Sé, limitandolo in una dimensione inconscia dalla quale non può riemergere se non attraverso acting out e sintomatologia somatica. L'adattabilità sociale cessa di essere uno dei numerosi aspetti della vita dell'individuo per divenire l'unico assunto esistenziale, e la sola identità consentita sarà quella di coloro con i quali il soggetto si identificherà di volta in volta, introiettando i loro contenuti esistenziali.
È dunque evidente la funzione difensiva svolta dal falso Sé: si tratta di una cortina protettiva dietro la quale il soggetto si trincera per non dover mostrare un nucleo esistenziale che non è stato confermato nel legame relazionale materno. Il vantaggio primario è quello di proteggere il Vero Sé - fragile e inadeguato - dal naufragio esistenziale cui andrebbe incontro ove scegliesse di relazionarsi con l'ambiente esterno. Quello secondario, egualmente proficuo, è di sostituire una realtà interiore vulnerabile con una dimensione psichica che nella sua stessa inautenticità trae la propria forza esistenziale.

Il falso sé e la relazione terapeutica

La funzione difensiva del Falso Sé si rivela un notevole ostacolo in ambito terapeutico, laddove è necessario consentire la strutturazione di una relazione validamente orientata in senso collaborativo. Solo così l'autentico nucleo esistenziale del soggetto potrà venire allo scoperto in tutta la sua potenzialità soggettiva, formando quel legame solido e costruttivo con l'ambiente impedito dalle condotte della madre oggetto.
L'Io ausiliario del terapeuta dovrebbe fornire al paziente le basi per disgregare la cortina difensiva del Falso Sé, e comportare la distruzione graduata e consapevole di quest'ultimo, in favore di una organizzazione esistenziale che risponda ai dettami del vero Sé. Un'esistenza costruita sulla propria volontà consapevole e critica, dunque, anziché sulla compiacenza altrui. Non si tratta di un compito semplice, soprattutto a causa della presenza di transfert e controtransfert che, specie nelle prime fasi della terapia, possono mostrarsi fuorvianti e ostativi alla collaborazione autentica.
La spiegazione appare piuttosto ovvia, ove si pensi che il transfert rappresenta la riattualizzazione del rapporto costruito con le figure affettivamente significative nella prima infanzia, e dunque una presentificazione della relazioni oggettuali sperimentate da piccoli. In questo caso il paziente rivede nel terapeuta il genitore, e nel setting riproduce il modello affettivo fatto di compiacenza estrema, obbedienza e rispetto che era solito attuare con lui. Ad esempio un paziente con un Falso Sé patologico si profonderà in atteggiamenti deferenti verso il terapeuta, nel timore che, in caso contrario, questi si arrabbierebbe con lui esattamente come era solito fare il padre. Ancora, nel caso in cui il paziente sia stato abituato a prendersi cura di una madre fragile e incostante, si relazionerà al terapeuta con la medesima modalità accudente, stando bene attento a non dire o fare qualcosa che potrebbe urtare la sua sensibilità (Horner, 1993).
Tale spiccata condiscendenza, specie in una prima fase, può essere confusa con un alto livello di motivazione al cambiamento, ma l'intento è esattamente opposto. In realtà il soggetto consegna allo psicologo la totale responsabilità della terapia, delegando al suo operato la costruzione, la continuazione e l'esito della stessa: tutto ciò in ottemperanza al meccanismo difensivo che il paziente attiva, anche nel setting terapeutico, per proteggere il vero Sé dalle incursioni esterne e per assecondare la volontà dell'oggetto relazionale - in questo caso il terapeuta (Deutsch, 1992). Il paziente collude apparentemente con gli stessi obiettivi del terapeuta, dichiarando di volerli raggiungere a sua volta: in realtà la sua condivisione è un'"autentica apparenza".
Da questo atteggiamento può sorgere un controtransfert a sua volta fuorviante: da una parte il terapeuta, di fronte ad una figura che gli mostra passività e condiscendenza estrema, può avvertire un vissuto emotivo di frustrazione, di impotenza, di fastidio. Il sì perenne e acritico, simile a quello che un bambino riferisce di fronte alle richieste del genitore, può portare la terapia ad un'impasse evolutiva proprio per la sua incapacità di fornire punti conflittuali nella relazione, il cui svolgimento diviene dunque la recita di un copione comportamentale, la sorta di adempimento di un dovere cui il paziente si attiene senza avvertire alcuna motivazione intrinseca. Se ne origina uno stallo terapeutico, in cui il legame relazionale viene inficiato da connotazioni forzate, fittizie e improduttive per entrambe le parti (Gabbard, 2009).

In altri casi la condiscendenza del paziente può suscitare un controtransfert seducente la cui componente narcisistica distorce la dinamica relazionale, che non viene utilizzata con finalità terapeutiche ma come mero strumento di auto conferma (Deutsch, 1992).
L'ostacolo principale è che il falso Sé non è in grado di costruire nessuna relazione autentica, al di là di una compiacente obbedienza. Ciò può essere spiegato con la sfiducia nell'ambiente evolutivo gradatamente maturata dal soggetto, e con la sua convinzione di doversi proteggere dallo stesso per non venirne distrutto.

Malauguratamente, quello che è nato come un mezzo di difesa dai propri istinti con il tempo è divenuto uno strumento per sottrarsi al vissuto relazionale, e dunque per impedire la costruzione di qualsiasi legame che possa mettere in pericolo l'esistenza inconsistente del falso Sé. Non sono concesse deroghe a tale difesa, neppure in psicoterapia. Pertanto anche la condivisione degli obiettivi viene costruita sulla base della compiacenza anziché della volontà. L'impasse è inevitabile, e nel momento in cui la velleità non collaborativa del paziente trasparirà al di sotto della sua apparente motivazione, rendendo impossibile la continuazione della terapia, il rischio del drop-out sarà elevato.
Affinché ciò non avvenga, è necessario che il punto di incontro tra paziente e terapeuta si tramuti in un'occasione di scontro finalizzata a costruire un legame autentico in grado di eludere la vigilanza estrema del Falso Sé. Questo comporta che il terapeuta per primo debba contrapporsi all'inautenticità del paziente, mostrandosi onesto nei propri intenti relazionali e comunicativi, presentando chiaramente gli obiettivi della terapia e l'importanza del raggiungimento degli stessi per superare il disagio.
Il terapeuta dovrà prospettare al paziente la possibile esistenza del Falso Sé tramite chiarificazioni, confrontazioni, interpretazioni o self-disclosures, e favorire in lui una percezione egodistonica dello stesso (McWilliams, 1994).
Non si esclude l'utilizzo di strumenti in grado di creare una frustrazione, un punto di rottura nel quale il paziente non può più affidarsi alla volontà del terapeuta, né interpretarla o prevederla, ma deve prendere per forza l'iniziativa. Da questo punto di vista, aumentare la sua tensione psichica si mostrerà funzionale alla costruzione di un transfert positivo e all'affermazione del proprio Sé (Ferenczi, 1924).

L'intervento espressivo dovrà mostrarsi superiore a quello supportivo proprio perché la necessità non è quella di comprendere empaticamente il vissuto del cliente - non si farebbe altro che ottenere una reazione ancor più passiva e immobilizzante da parte sua - ma quella di metterlo a confronto con realtà frustranti che siano in grado di suscitare punti di contrasto con la personalità inautentica, così da fargli comprendere il costo esistenziale della stessa.
Ciò non significa che il terapeuta non dovrà mostrarsi empatico o collaborante: anzi, tali atteggiamenti frustranti potranno essere inseriti all'interno del setting soltanto dopo che si sarà strutturata un'alleanza terapeutica stabile, grazie alla quale il paziente potrà interpretare i momenti di tensione psichica in una direzione evolutiva e non demolitrice del Sé.

Conclusioni

Con la costruzione del supporto evolutivo che avrebbe dovuto verificarsi nel rapporto diadico, il terapeuta e il paziente riescono a trovare il vero Sé, a metterlo a nudo nella relazione terapeutica e ad integrare la sua natura, scissa e nascosta, con le conquiste evolutive esperite attraverso il Falso Sé (Horner, 1993).

Il Vero Sé consentirà al paziente di mostrare i propri difetti senza eluderli, di palesare conflitti e contrasti senza timori di annichilimento esistenziale, di sviluppare condotte assertive e vissuti di autoconferma attraverso i quali stabilire legami inter ed intrapersonali solidi e coerenti. A questo punto il Vero Sé non sarà percepito così fragile da richiedere difesa, né così minaccioso da suscitare angoscia: è questo l'obiettivo finale, in presenza del quale la terapia potrà definirsi produttivamente conclusa.

Riferimenti bibliografici
  • Deutsch H. (1992), The therapeutic process, the self, and female psychology: collected papers, Editor Paul Roazen. N.J.: Transaction Publishers;
  • Ferenczi, S. (1924), Fondamenti di Psicoanalisi, Guaraldi, Torino, vol. 3;
  • Freud, S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, tr. it. in OSF, vol. 4, Bollati Boringhieri Torino, 1989;
  • Horner, A.J. (1993), Relazioni oggettuali: teoria e trattamento, Raffaello Cortina, Milano;
  • Winnicott, D.W. (1960), Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando, 1974;
  • Winnicott, D.W.(1968), La famiglia e lo sviluppo dell'individuo, Roma, Armando, 1982.
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Commenti: 1
1 MARIO alle ore 12:33 del 29/05/2021

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