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Il valore "nutritivo" dello sguardo nella diade: il metodo di Esther Bick
L'articolo " Il valore "nutritivo" dello sguardo nella diade: il metodo di Esther Bick" parla di:
- Holding e contatto oculare
Allattamento e sguardo materno Lo sguardo nel setting terapeutico
Articolo: 'Il valore "nutritivo" dello sguardo nella diade: il metodo di Esther Bick'
INDICE: Il valore "nutritivo" dello sguardo nella diade: il metodo di Esther Bick
- La funzione visiva nell'infant observation
- Il contatto oculare
- La funzione nutritiva dello sguardo
- Lo sguardo come regolatore emotivo
- Lo sguardo nel setting terapeutico
- Bibliografia
- Altre letture su HT
La funzione visiva nell'infant observation
Il metodo di studio di Esther Bick, centrato su di un'osservazione della donna durante il periodo della gestazione e dei due anni
successivi al parto, evidenzia come, nelle prime fasi della vita, lo strumento visivo rappresenti un canale sensoriale d'elezione per lo sviluppo
di competenze relative alla consapevolezza del Sé e alla costruzione di relazione oggettuali stabili; ma rimarca altresì come,
all'interno della diade, il ruolo dello sguardo trascenda una funzione puramente percettivo-sensoriale per divenire costruttore della stessa.
Uno sguardo responsivo da parte della madre conferisce le risorse necessarie a raggiungere una consapevolezza del Sé diadico e in seguito
del Sé soggettivo.
Il bambino cerca se stesso nel volto materno, e grazie a questo contatto speculare avverte non solo la propria collocazione nel mondo, ma
soprattutto la propria esistenza nella mente della madre, con la quale sente di costituire un'entità indifferenziata: gli occhi della
madre lo nutrono non meno di quanto fa il seno.
La matrice della realtà, inter e intrapsichica, mostra pertanto una natura palesemente intersoggettiva, costruita sulla base di dinamiche
relazionali trasformative e confermanti.
Il canale oculare come strumento di costruzione affettiva e ricerca del Sé
Per quanto la vista sia l'ultimo senso a maturare - si rileva che il feto riesca ad aprire le palpebre soltanto intorno alla ventesima
settimana, quando gli altri sensi si sono già sviluppati - già dalle prime fasi della vita il bambino riesce a riconoscere il
volto materno rispetto a quello di estranei, e a distinguerlo tra una molteplicità di altri stimoli. Ciò testimonia quanto il
contatto oculare rappresenti non soltanto uno strumento di relazione con il Sé e con il mondo, ma un autentico mezzo di sopravvivenza
legata a un impulso relazionale imprescindibile.
L'angoscia connessa alle prime esperienze di vita mostra caratteristiche soverchianti, e spesso ingestibili; il bambino viene inserito in un
ambiente sconosciuto, del quale non riesce a percepire la delimitazione e l'entità; allo stesso modo non è in grado cogliere
distintamente i propri confini corporei né di differenziarli da quelli della madre, e non può gestire il bombardamento di stimoli
sensoriali cui viene di colpo esposto, al termine dei lunghi mesi di gestazione trascorsi all'interno del rassicurante ventre materno. E se
l'unione con la madre elicita in lui stadi di benessere, talvolta di onnipotenza, la separazione da lei lo costringe a un vissuto di angoscia
disintegrante: lontano dal suo abbraccio si sente perso in un coacervo di elementi inconciliabili, pezzi che rischiano di andare in frantumi
in assenza di un fattore unificante.
Questa funzione contenitiva e di sostegno, che Winnicott (1949) chiama holding, non viene tuttavia realizzata solo attraverso un abbraccio
che stringe e protegge. Esiste un'altra funzione, non certo subalterna rispetto a quella somatica, in grado di sottrarre il bambino a vissuti di
frammentarietà e angoscia di annichilimento, così frequenti nelle prime fasi della vita: è quella svolta dal contatto
oculare.
In questa fase della vita lo sguardo materno diventa un autentico strumento di supporto e contenimento, utile a conferire una parvenza unitaria
alle sensazioni propriocettive, di per sé frammentarie, per collocarle in una dimensione di accesso allo spazio e alla profondità:
esso è un canale di interpretazione e costruzione della realtà tridimensionale. La sua presenza consente al bambino di
percepirsi come una Gestalt sicura, stabile e in armonia con tutto ciò che lo circonda. La madre restituisce al bambino emozioni modificate,
temperate e pensabili, in grado di essere contenute nella mente ed elaborate in termini dapprima sensoriali e in seguito rappresentazionali.
In un momento in cui lo strumento verbale non può essere utilizzato per costruire stati comunicativi regolatori, il canale cinestesico
si mostra un viatico di sicurezza eccellente e immediato, capace di evitare vissuti di angoscia non narrabile, che verrebbero immagazzinati
mnesicamente nella modalità disorganizzata e intrusiva tipica dell'esperienza traumatica.
La presenza di un oggetto materno stabile - sia nella dimensione somatica che in quella affettiva - risulta il presupposto indefettibile per
l'inizio di un processo evolutivo privo di tessuti traumatici probabilmente indelebili. Un abbraccio che sostiene e contiene, così come
uno sguardo che nutre e dirige, si rivelano preziosi strumenti relazionali in grado di trasmettere al bambino quella sicurezza preverbale e
presimbolica necessaria alla costruzione del Sé.
Come in una sorta di riproduzione del contesto uterino, lo sguardo conferisce al bambino un senso di unità e di continuità nello
spazio, e lo avvolge in un'enveloppe psichica dal quale prenderà origine il nucleo più profondo del Sé. Dal canto suo il
bambino, forte della presenza della madre, potrà introiettarla come un oggetto buono e rassicurante, rendendo la sua immagine un supporto
interiorizzato, stabile e sicuro, con il quale rapportarsi al Sé e all'altro (Cresti, Lapi, Pratesi, 2020).
In riferimento alla funzione di rispecchiamento materna, Winnicott (1967) suggerisce che i bambini, quando volgono lo sguardo alla madre che li
osserva in modalità responsiva, non compiono soltanto un atto visivo: è piuttosto un "impulso affettivo" quello cui danno
luogo. Un intento volto alla ricerca del Sé nella madre: è come se l'oggetto materno divenisse uno strumento di autoesplorazione
e autoconoscenza, perché; è attraverso il volto rispecchiante della madre che egli prende contatto, per la prima volta, con vissuti
autopercettivi.
Guardando la madre il bambino ricerca il Sé nel suo sguardo. Egli non vuole essere soltanto un corpo tra le sue braccia, ma desidera
soprattutto essere una presenza affettiva nella sua mente, per poter trarre da questa certezza una conferma esistenziale.
Lo sguardo della madre funziona come specchio vitale, come elemento riflessivo e confermante di un Sé ancora incerto; è il ruolo
di specchio della madre (Winnicott, 1967; 1975), che di rimando costituisce l'apparato d'influenza del bambino (Gori, 1977), restituendogli la
capacità di essere e di percepire se stesso, di riconoscere e nominare i suoi stati d'animo, di regolare le sue emozioni.
La funzione nutritiva dello sguardo
La funzione di "nutrimento" emotivo del contatto visivo è stata convalidata da osservazioni madre bambino effettuate con il metodo
di Esther Bick (Cresti, Lapi, Pratesi, 2020). Proprio l'infant observation ha dimostrato una sostanziale parificazione tra il nutrimento
oculare e quello orale, ponendoli come strumenti introiettivi dei quali è richiesta la presenza e la compresenza, ai fini di garantire
il benessere psicofisico. L'infant observation tiene in grande considerazione la gratificazione orale che interviene durante l'allattamento: le
sessioni di osservazione, aventi cadenza settimanale e durata di un'ora circa, si focalizzano essenzialmente sul momento della poppata,
intesa non soltanto come mezzo di nutrimento e sostentamento fisiologico, ma anche come contesto di costruzione di una comunicazione diadica,
interattiva, partecipante e riflessiva, per quanto basata soltanto su componenti preverbali e cinestesiche.
Le osservazioni hanno consentito di esplorare il ruolo dei vari organi sensoriali, durante il contatto a due madre-figlio: in particolare la
bocca è uno strumento di gratificazione di bisogni orali: dunque consente il nutrimento e l'introiezione del latte materno. Allo stesso
modo gli occhi sono in grado di gratificare i bisogni affettivi che il bambino esprime attraverso lo strumento visivo, anelando il contatto
oculare con la madre (Bick, 1964).
Pertanto l'attunement che accompagna lo sguardo materno è nutritivo alla pari di un cibo, e non diversamente da un cibo consente
la sopravvivenza. Da questo punto di vista lo strumento visivo e quello orale possono venir posti su una medesima dimensione di nurture,
fisiologica da una parte e affettiva dall'altra.
Lo sguardo può essere inteso come l'espressione di una pulsione relazionale, del desiderio di tendere verso l'altro, penetrare il suo
spazio visivo per farne parte e al contempo per comunicargli che anche lui è parte del nostro, e lo abita intensamente. Esso è
la risposta all'esistenza dell'altro, è l'assenso a una vicinanza emotiva che può raggiungere profondità inattese.
Nel caso del bambino, esistenziali.
L'allattamento è la dimostrazione di questa volontà relazionale. Il neonato non si accontenta di attaccarsi al seno della madre e
di trarre dallo stesso il nutrimento. Durante la poppata i suoi occhi si proiettano su di lei, quasi alla ricerca di un sostegno confermante,
e cercano di introiettarne la presenza non meno di quanto la bocca cerca di ingerire il latte. Il bimbo si aggrappa letteralmente alla
madre per orientarsi in un contesto che percepisce minaccioso e sconosciuto: non a caso si parla di una funzione di grasping - di
appiglio - svolta dallo sguardo durante l'allattamento (Bick, 1964). All'interno della diade lo sguardo del bambino ha pertanto una funzione
captativa: esso vuole prendere, accaparrare, interiorizzare, relazionarsi e creare contatto; al contrario lo sguardo della madre ha
soprattutto un valore donativo, avendo la funzione di offrire al bambino tutto ciò di cui ha bisogno per nutrire corpo e anima.
Perché il bambino possa risultare completamente nutrito è necessario che durante l'allattamento la madre sia presente non solo
corporalmente, ma anche e soprattutto affettivamente, in modo che ambedue i canali di introiezione - quello oculare e quello orale - possano
risultare gratificati.
Se la bocca incamera il nutrimento senza che l'occhio possa fare altrettanto il benessere del bambino non sarà completo: si è
osservato come, bambini che non ricevevano un contatto oculare stabile e responsivo durante la poppata, mostrassero livelli marcati di disagio
emotivo, disfunzionalità regolativa e disturbi alimentari. Al contempo, bambini costretti all'alimentazione artificiale a causa di
problemi di salute della madre, fissavano di frequente lo sguardo sull'oggetto materno quasi per introiettarne la presenza e sentirsi meno a
digiuno (Cresti, Farneti, Pratesi, 2001).
Il sostegno oculare si mostra non soltanto un indefettibile supporto di costruzione affettiva, ma anche un autentico mezzo di sostentamento, in
grado di equipararsi all'alimentazione orale, e per certi aspetti di supplirne l'assenza. Dunque il bambino che non si alimenta con la bocca
incamera l'affetto materno tramite il contatto visivo e se ne sente in un certo qual modo nutrito, sostenuto. Lo sguardo diventa un aggancio
psichico indispensabile al Sé (Bick, 1964).
Lo sguardo come regolatore emotivo
Si è osservato come lo sguardo materno sia in grado di svolgere una funzione prettamente regolatrice dell'arousal, e dunque di
risposta agli stimoli esterni, impedendo l'insorgenza di stati di ipo o iperattivazione.
Bambini che non vengono adeguatamente stretti tra le braccia della madre, e non si rispecchiano nei suoi occhi in una modalità rassicurante,
possono sviluppare deficit di risposta agli stimoli ambientali - e quindi apatia o ipotonia - o al contrario un iperarousal unito a marcata
eccitabilità, con i quali cercano di supplire al vissuto regolativo carenziale. Ancora, bambini precocemente istituzionalizzati sono
più esposti all'insorgenza di condotte e stereotipate con valenza autoconsolatoria - come il dondolamento - finalizzate al
raggiungimento di un'elaborazione sequenziale degli stimoli che proprio l'assenza materna non ha permesso, aprendo il varco a una tempesta
emotiva disintegrante (Spitz, 1958).
Lebovici (1971) osserva come i bambini abbandonati in orfanotrofio, nel loro scuotere continuamente la testa in segno di diniego, intendano
riattualizzare il no materno precocemente ricevuto, nella duplice finalità di riattualizzare il trauma abbandonico e di mantenere
un legame continuativo con l'oggetto materno nell'unica modalità possibile: quella del rifiuto. Al contempo, lo scuotimento reiterato
e afinalistico della testolina rappresenta il tentativo di inserire i propri impulsi in una dimensione simmetrica e regolativa, oltre che un
meccanismo autoconsolatorio imitativo, il cui scopo è quello di riprodurre il movimento riflesso attraverso il quale il bambino si era
accostato al seno materno per ricevervi sostegno e nutrimento, e al loro posto ha trovato un annichilente vuoto: "è come se
vi fosse un'equivalenza fra la mancanza della madre e la frustrazione che ella impone al bambino, dicendogli no. La proibizione, il no, sono
vissuti come mancanza e come assenza: un tempo il bambino trovava la madre accostandosi al suo seno con la testa, e ora con la testa riproduce
questa ricerca, pronunciando il suo "no" all'infinito" (ibid. 1973, p. 39).
Dunque lo sguardo materno riceve l'angoscia del bambino e gliela restituisce bonificata e accettabile, gli impedisce di crollare a pezzi, di
diventare preda di un terrore di annichilimento in un universo fatto di stimoli incomprensibili e dispersivi. Esso diviene il contenitore per
ciò che non può essere pensato, uno specchio per ciò che non può essere guardato fino in fondo.
Ovvio come questa musicalità regolativa debba essere costruita in maniera graduale e rispettosa dei ritmi biologici del piccolo: la madre
apprenderà come lo sguardo non possa risultare né così pressante e invasivo da impedire al bambino la percezione di una
distanza tra il proprio e il suo spazio psichico, né così lontano da spingerlo a introiettare un pietrificante vuoto affettivo,
una lacuna esistenziale che, non trovando risposta, dovrà essere colmata con gratificazioni alternative e mai del tutto appaganti.
Lo sguardo non dovrà seguire una ritmicità collassante e disorganizzata, in grado di incrementare le angosce del bambino e di
enfatizzare in lui sensazioni distruttive. Né dovrà mostrarsi inautentico - e dunque oggettivamente presente ma distante -
né soggetto a continue interruzioni che lo renderanno discontinuo e instabile.
Occhi che cercano compulsivamente lo sguardo di una madre sfuggente saranno destinati a fronteggiare un digiuno d'amore che si tradurrà
nella costruzione di un Sé instabile e di una realtà altrettanto scissa e parziale. Allo stesso modo, uno sguardo materno invasivo
e famelico costringerà il bambino a introiettare la madre non come un processo - trasformativo, affettivo e supportivo - ma come un
oggetto persecutorio, inattendibile e colonizzante.
Lo sguardo dovrà per questo mostrare doti di supporto e rassicurazione, svolgendo il ruolo di contenitore per tutti quei contenuti
preverbali e presimbolici cui il bambino non può trovare una collocazione regolativa all'interno del Sé.
Ed è in questa funzione di contenimento che lo sguardo si mostra utile non solo al raggiungimento di una nutrizione affettiva e materiale,
ma anche di un'informazione stabile sul Sé e sull'ambiente (Winnicott, 1975).
Lo sguardo nel setting terapeutico come fattore comunicativo non verbale
Il bambino deve costruire le proprie risorse egoiche a partire da quelle della madre, che incarna per lui il legame affettivo arcaico, il
primo oggetto altro da Sé la cui presenza è in grado di confermarlo o di distruggerlo. Una madre che non osserva il figlio
in una modalità riflettente è una madre che annienta il figlio, e lo lascia a digiuno perché; ignora la sua dimensione
affettiva, il nucleo più profondo del suo Sé, precludendogli di venire alla luce in una modalità consapevole e assertiva.
L'Io ausiliario dello Psicoterapeuta potrà modificare gli effetti di uno sguardo materno inadeguato, contribuendo a ridurne l'intensità,
nel caso si sia rivelata opprimente, o ad incrementarla, nel caso in cui sia stata carente e inadeguata.
Sarà suo compito stabilire un contatto vis à a vis con il cliente già in occasione del primo incontro, e comprendere,
attraverso lo stesso, la possibilità di utilizzare lo sguardo come prezioso strumento comunicativo. All'interno del setting lo sguardo
deve tornare a svolgere una funzione contenitiva delle angosce, di riconoscimento e conferma del Sé, e deve essere spogliato di connotati
persecutori.
Con strumenti mimici facciali il terapeuta dovrà dosare il contatto oculare, stando attento ai modi e ai tempi in cui il paziente è
disposto a tollerarne la presenza. Il controtransfert, a sua volta, dovrà esprimersi attraverso sguardi accoglienti, comprensivi e
partecipi, volti a creare uno spazio di apertura nella dimensione emotiva e a riprodurre quella condizione di contenimento rassicurante e
confermativo della diade (Beebe e Lachmann, 2003).
Conferire importanza all'elemento oculare all'interno del setting terapeutico significa evidenziare quegli aspetti comunicativi non verbali
che conferiscono un apporto informativo sul legame pregenitale tra la madre e il paziente, e sullo spazio-psichico e corporale che questi ha
occupato per lei.
Osservare le diverse modalità di reazione allo sguardo serve a elicitare quelle esperienze somatiche, sensoriali e presimboliche delle
prime fasi di vita la cui presenza, percepibile nella comunicazione corporea individuale, riecheggia nel setting proprio attraverso l'utilizzo
dello sguardo nella relazionalità col terapeuta.
Il modo in cui un soggetto si colloca nello spazio e nel tempo può riflettere il modo in cui è stato collocato originariamente
nel contesto diadico o nella dimensione affettiva arcaica, e dunque può riproporre, in via riattualizzante - e anche informativa per il
terapeuta - il riflesso di un transfert materno "oggettivante".
Osservando l'espressività psicomotoria di un paziente sarà possibile rievocare le modalità attuative del linguaggio
preverbale diadico, e scoprire l'importanza che il Sé oggettivato ha rivestito per la madre (Bollas, 1987; Beebe e Lachmann, 2003):
ad sempio un paziente che sfugge lo sguardo e lo abbassa, quasi intimidito, porterà con sé il peso non simbolizzato di una
relazione materna poco attenta ai bisogni anaclitici, in cui lo sguardo non ha nutrito né sostenuto. E dunque ricercherà lo
sguardo del terapeuta, come se solo in quel momento sentisse di esistere per qualcuno. O forse sarà alla ricerca di uno spazio autonomo
e differenziante, al riparo di uno sguardo invasivo e colonizzante che ha più volte invaso la sua dimensione esistenziale, costringendola
a una direzione inautentica. Al contrario, un paziente che ricerca convulsivamente lo sguardo può esprimere la presenza implicita di un
introietto materno non adeguatamente responsivo, e proprio nella sua richiesta di venir guardato può palesare un bisogno di vicinanza
e reciprocità troppo a lungo frustrato.
Il terapeuta dovrà fornire al paziente una dimensione equilibrata, rendendosi un oggetto materno "ausiliario" stabile e fortificante,
al fine di consentire la costruzione di un Sé autonomo e vitale, che proprio l'assenza o un deficit dello sguardo materno, all'interno
della diade, ha reso impossibile. Di rimando, il paziente dovrà sentirsi esistente per il terapeuta che lo sta osservando, e nel suo
stesso sguardo costruire quella percezione confermante del Sé che non gli é stata fornita dal contesto diadico.
La matrice relazionale dello sguardo contribuirà a rendere il setting un contesto dinamico in cui gli scambi intersoggettivi sono
l'aggancio continuativo e al contempo trasformativo di una realtà pregenitale, i cui contenuti potranno essere validamente rievocati,
rielaborati e verbalizzati al fine precipuo di costruire, attraverso l'appoggio riflettente e riflessivo dell'IO del terapeuta, stati di
sicurezza, conferma e benessere intra e intersoggettivo.
Bibliografia
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Raffaello Cortina, Milano
- Bick E. (1964), Notes on Infant Observation in Psychoanalytic Training, Int. Journal of Psychoanalysis, vol. 45, pp. 558 e ss.
- Bollas C. (1987), L'ombra dell'oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Raffaello Cortina Editore, 2018
- Cresti L., Farneti P., Pratesi C. (2001), Osservazione e trasformazione, Borla, Roma
- Cresti L., Nissim S. (2007), Percorsi di crescita: dagli occhi alla mente. Metodo, ricerca, estensioni dell'infant observation,
Borla, Roma
- Cresti L., Lapi I., Pratesi C. (2020), Sguardi che aiutano a crescere: un'esperienza di formazione del personale negli asili-nido
di Firenze, in Contrappunto, Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica, n. 59
- Farroni T., Massaccesi S., Simion F., (2002), La direzione dello sguardo di un'altra persona può dirigere l'attenzione
del neonato, Giornale italiano di psicologia
www.research.unipd.it/handle/11577/2463284#.YMDg20zONPY
- Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, tr.it. in OSF, vol. 4, Bollati Boringhieri Torino, 1989
- Gori R. (1977), Entre cri et langage: l'acte de parole, Psychanalyse et langage: du corps à la parole, Paris: Dunod, 1977
- Lebovici S. (1971), I sentimenti di colpa nel bambino e nell'adulto, Feltrinelli, Roma, 1973
- Mori L., Fattirolli E., Rook Fortini L. (2015), Lo sviluppo delle relazioni fraterne visto attraverso l'Infant Observation,
in Scenari dei legami fraterni, Le Lettere, Firenze
- Spitz R. (1958), Il primo anno di vita del bambino, tr.it. Giunti Editore, Firenze, 2010
- Winnicott D.W. (1949), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 2011
- Winnicott D.W. (1967), La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile, in Gioco e realtà,
tr.it. Armando, Roma, 1970
- Winnicott D.W. (1975), Frammento di un'analisi, tr.it. Il Pensiero Scientifico, Roma, 1981
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- Rebecca Farsi, "Psicofarmaci e psicoterapia
in gravidanza: una discussione aperta", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika n. 171, 2020
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