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Che cos'è la Tossicodipendenza? Il perché della droga dal punto di vista della Psicologia Psicodinamica
L'articolo " Che cos'è la Tossicodipendenza?" parla di:
- Contesto sociale e tipologia di personalità
Abuso di sostanze stupefacenti come atto difensivo Jung: consumo di droga e dipendenza dall'inconscio
Articolo: 'Che cos'è la Tossicodipendenza? Il perché della droga dal punto di vista della Psicologia Psicodinamica'
A cura di: Giuseppe Caserta
La tradizione di ricerca ed intervento in ambito psicologico sul problema tossicodipendenze è sicuramente una delle
più grandi sfide dei nostri tempi.
La grandissima diffusione delle sostanze stupefacenti tra i giovani e non, che caratterizza la società moderna, ha radici profonde e
spesso sfugge alla comprensione profonda delle persone, le quali tendono ad identificare il "drogato" con una precisa tipologia di persona,
ovvero quella dipendente da eroina.
In molti casi, inoltre, c'è una associazione quasi automatica nella "psicologia dell'uomo comune" tra tossicodipendenza e criminalità,
il che non sempre ha un riscontro oggettivo, in quanto i vari tipi di droghe possono essere consumati in diversi contesti sociali e possono
essere associati, come vedremo, a diverse tipologie di personalità.
L'approccio di ricerca sull'eziologia e sulle implicazioni del consumo di droghe non può prescindere dal lavoro in stretta sinergia
con l'ambito medico.
La droga, infatti, oltre ad avere un forte impatto psicologico sul consumatore, causa dei problemi anche fisici che mettono
in pericolo la vita delle persone che fanno uso di sostanze stupefacenti, soprattutto in casi di overdose o di alterazione della sostanza a causa
di un maldestro tentativo di "taglio", ovvero di combinazione del principio attivo della droga con altre sostanze, come antibiotici od anestetici,
che servono a ridurne l'effettiva quantità in ogni dose.
Quello che è certo è che vi è la necessità irrinunciabile di operare in una prospettiva multidisciplinare
per far fronte ad un fenomeno che è riduttivo spiegare in termini meramente psicopatologici o psicofarmacologici, ma che va affrontato
necessariamente da una prospettiva esistenziale che tenga in debito conto il vissuto e il contesto di vita della persona
che fa uso di sostanze.
Una categorizzazione descrittiva basata sui criteri del DSM IV (1994), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, considera
"sostanza stupefacente" tutto ciò che, se assunto, altera in modo significativo i sensi o l'umore e determina come criteri per poter
parlare di "disturbo correlato alla dipendenza da sostanze" sintomi quali ritiro sociale, abuso continuato della sostanza nonostante i problemi
di salute ad essa correlati e aumento progressivo e continuato nel tempo del dosaggio necessario per ottenere gli effetti desiderati.
Tale classificazione, sebbene necessaria ai fini diagnostici e importante come punto di partenza per il riconoscimento del problema e la
progettazione di interventi adeguati alla cura, non rende a mio parere pienamente giustizia al complesso rapporto che lega la persona alla
sostanza di cui fa uso.
La Psicologia ad orientamento psicodinamico vede nell'abuso di sostanze stupefacenti non semplicemente una ricerca di piacere e di
gratificazione, ma soprattutto un atto difensivo da parte del soggetto, che utilizzerebbe le droghe come uno strumento di protezione
che lo metterebbero al riparo da condizioni molto regressive dal punto di vista psicopatologico, caratterizzate da difese deboli dell'Io contro
sentimenti molto potenti quali rabbia, depressione e angoscia.
Le droghe, infatti, fungerebbero da modulatore degli affetti, venendo utilizzate per supplire all'incapacità fondamentale
del tossicomane di prendersi cura di sé: l'Io della persona che abusa di sostanze stupefacenti è infatti caratterizzato, secondo
il pensiero psicoanalitico contemporaneo, da una serie di traumi precoci infantili che avrebbero causato una difficoltà ad
interiorizzare modelli genitoriali positivi, facendo così mancare all'adulto quelle immagini positive che, fungendo da modello, avrebbero
potuto metterlo in condizioni di difendersi e prendersi cura di se stesso.
L'uso continuato di sostanze verrebbe visto, quindi, come una sorta di "rituale" attuato dalla persona al fine di proteggersi da un'angoscia
distruttiva e insostenibile, contro la quale solo le sostanze possono, in modo effimero, arginarne i sintomi: a questo proposito anche la
scelta della sostanza riveste una importanza fondamentale, poiché essa è direttamente collegata al tipo di affetto che si
vuole reprimere.
In base a questa tesi, diverse ricerche hanno mostrato come la cocaina sia usata ad esempio per ridurre l'intensità di stati
depressivi o ipomaniacali (Khantzian, 1997) mentre l'eroina sia prevalentemente diretta alla modulazione dell'aggressività
(Blatt et al., 1984).
Da quanto detto, mi sembra evidente che in realtà l'abuso di sostanze stupefacenti sia un maldestro e imperfetto tentativo di
autoguarigione del tossicodipendente, destinato tuttavia al fallimento in quanto, oltre ai dannosi effetti che le droghe hanno sul
nostro organismo, il perseverare nell'assunzione della sostanza fa in realtà il gioco stesso dei paurosi affetti che la persona tenta
disperatamente di evitare.
Tale coazione a ripetere, non molto dissimile da quella osservata da Sigmund Freud durante i suoi studi a proposito della pulsione
di morte (1920), serve a perpetrare all'infinito il dolore e la sofferenza poiché spesso, come nel caso dei disturbi
ossessivo-compulsivi, il sintomo diventa più penoso ed invalidante dell'affetto e del trauma che tenta di arginare.
La determinazione del tossicodipendente ad infliggersi, a volte anche consapevolmente, dolore nel tentativo di controllare la
sofferenza è uno degli ostacoli più grandi al trattamento psichiatrico di questa problematica: secondo la psicodinamica,
infatti, la libido, ovvero l'energia psichica che spinge e guida le nostre aspirazioni e i nostri desideri (Jung, 1912), essendo quasi
totalmente assorbita dalla ricerca della droga lascia ben poco spazio alla relazione con il terapeuta.
Molto interessante, secondo me, è il contributo di Carl Gustav Jung che mette in stretta relazione il consumo di droga con
una vera e propria dipendenza dall'inconscio, dipendenza che si caratterizza per l'assoluta sottomissione ai simboli potenti presenti
in esso, verso i quali il tossicodipendente non trae alcun beneficio, ma soltanto una esistenza "parassitaria" alla mercè dell'energia
generata da questi.
In quest'ottica, quindi, si potrebbe concepire la persona dipendente da sostanze come uno sciamano decaduto, incapace di gestire il
contatto con l'inconscio e completamente schiavo delle sue stesse immagini inconsce.
Per tutte queste ragioni la Psicoanalisi e la Psicoterapia Psicodinamica in generale restano molto scettiche sul trattamento
della persona dipendente da sostanze: sarebbe infatti estremamente difficile, se non impossibile, che vi sia spazio per una relazione con
il terapeuta fin quando la sostanza gestisce le emozioni al posto del paziente e fin quando la libido è concentrata su di essa in modo
esclusivo.
Tuttavia, a questa tipologia di pazienti un percorso psicoterapeutico non è precluso: l'obiettivo principale della Psicoterapia a
orientamento psicodinamico, nel campo della cura delle tossicodipendenze (Gabbard, 2005), resta quello di aiutare la persona a resistere
ai tentativi di gratificazione legati al consumo di sostanze stupefacenti, fornendo contemporaneamente all'Io del paziente gli
strumenti adatti per poter far fronte all'angoscia senza ricorrere alla modulazione degli affetti indotta artificialmente dalla droga.
Bibliografia
- AA.VV., "Mini DSM-IV-TR", American Psychiatric Association, 1994
- Blatt S.J., Rounsaville B., Eyre S.L. et al., "The psychodynamics of opiate addiction", Journal of Nervous and Mental Disorders, 172 pp. 342-352, 1984
- Freud S., "Al di là del principio di piacere", Bollati Boringhieri, 1920
- Jung C.G., "La libido, simboli e trasformazioni", TEA, 1912
- Khantzian E.J., "The self-medication hypothesis of substance use disorders: A reconsideration and recent applications.", Harvard Review of Psychiatry, 4 pp. 231-244, 1997
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