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Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo

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Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo
La depressione, il caso di Marica

L'articolo "Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo" parla di:

  • La lettera di Marica
  • Sviluppo dei sintomi
  • Situazione attuale
Psico-Pratika:
Numero 147 Anno 2018

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Articolo: 'Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo
La depressione, il caso di Marica'

A cura di: Claudia Nissi Collaboratore HT
    INDICE: Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo
  • Introduzione
  • Cara Depressione ti scrivo...
  • Anamnesi
  • Scegliere di non scegliere
  • Criteri diagnostici
  • ...e io ti rispondo
  • Sviluppo dei sintomi della depressione di Marica
  • Un anno dopo
  • Attualmente
  • Conclusioni
  • Riflessioni personali
  • Altre letture su HT
Introduzione

L'articolo si propone di aiutare i neo-colleghi a capire il vissuto emotivo del paziente depresso. Per farlo, riporto la lettera di una paziente depressa scritta quando era ricoverata presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), servizio presso il quale ho assistito la protagonista come amica di famiglia.
Racconto questa storia prendendo spunto dalle sue parole, che sono testimonianza di come si sentisse in un periodo molto difficile della sua vita.
Tale periodo ha costituito per lei un momento di cambiamento e un'opportunità per riflettere su alcuni aspetti della sua quotidianità.

Vorrei, inoltre, far comprendere l'importanza a livello terapeutico di empatizzare e sostenere i familiari della persona affetta da depressione, sia nell'interesse del paziente, sia nell'interesse dei familiari stessi.
I familiari coinvolti, infatti, saranno preda di emozioni differenti: rabbia, tristezza, frustrazione, impotenza. La difficoltà nell'aiutare la persona cara affetta da depressione potrebbe minare la loro immagine di sé, al punto da sentirsi incapaci di prendersi cura dell'altro.
In altre parole, prendendo come esempio il caso riportato, la scarsa efficacia delle azioni messe in atto per aiutare Marica faceva sentire i familiari ancora più frustrati e arrabbiati, perché non si ritenevano in grado di reagire e quindi si percepivano impotenti. È angosciante e triste per un familiare restare accanto alla persona cara e cercare di aiutarla nonostante, a causa della sua stessa malattia, la persona non solo non voglia essere aiutata, ma, nei casi più gravi, "decida" di lasciarsi morire.

Le parole del terapeuta sono fondamentali per alleggerire la famiglia del paziente nel sopportare il carico emotivo negativo che si ha nel guardare un proprio caro spegnersi senza poter far niente.
Il sostegno emotivo del professionista, però, a volte è difficile da attivare, in quanto dall'esperienza clinica e anche nel caso riportato si evince che la paziente non solo fatica ad essere agganciata nel lavoro terapeutico avendo poca coscienza del proprio malessere, ma, nella fase acuta, può essere solo sostenuta e contenuta a livello emotivo. I pensieri depressivi e ansiogeni, infatti, non permettono di iniziare un lavoro psicoterapico che possa andare oltre al qui ed ora.
Nell'impossibilità di iniziare un lavoro di esplorazione con la paziente nella fase acuta può essere utile, quindi, sostenere e rafforzare i familiari di fronte alle loro emozioni negative: devono poter parlare - senza sentirsi giudicati - di tutto il vissuto negativo che accompagna la depressione.
Il terapeuta ha, invece, il dovere di comunicare loro che le emozioni che provano non sono "sbagliate" e che la rabbia verso la paziente è assolutamente umana. Il sostegno e il rinforzo sono utili per evitare che sviluppino un senso di inefficacia personale e in modo che, alleggeriti in parte dal loro vissuto, abbiano maggiore possibilità di aiutare la paziente. È importante anche che non si aggrappino alla terapia come soluzione magica per guarire il loro familiare.

Tale riflessione può essere utile ai colleghi sia in caso di una terapia familiare, sia nel caso di una terapia individuale nella quale il terapeuta decida di convocare la famiglia del paziente depresso, per comprendere meglio il livello di gravità della situazione e costituire un'alleanza.
L'incontro con i familiari può avvenire anche all'interno del setting della terapia individuale una volta al mese.

Nei casi di depressione il trattamento psicoterapico e quello farmacologico sortiscono un maggiore effetto se utilizzati in modo combinato.

Cara Depressione ti scrivo...

Cara Depressione,
fino a poco tempo fa non ti conoscevo, poi un giorno non molto lontano sei entrata dentro di me.
Ti ho sottovalutata nel tempo precedente, perché non sapevo che tu ti insinuavi nella mia testa, condizionando tutta la mia vita.
Ero convinta di stare bene, di aver superato i momenti bui che ci sono stati, invece tu lavoravi in maniera subdola e io non ho capito le prime avvertenze della tua presenza.
È un tunnel dove non vedi più il sole, gli interessi, gli affetti, sei solo protesa verso un buio nero nero.
Ho cercato di combatterti, ma sembra che tu sia più forte di me!!!
Si deve reagire, si deve riprendere la vita e farla propria.
Al momento sembra che stai vincendo tu, ma io devo per me stessa e per gli altri sconfiggerti.
Devo riprendere la vita con le sue gioie e difficoltà.
Sto facendo un percorso terapeutico e purtroppo farmacologico, ma soprattutto devo trovare la forza dentro di me e farla mia.
Le sensazioni che si provano sono alterate, non si conosce più il gusto del bello, del sapore di tutte le cose, ma questo non mi deve fare abbattere, anzi, devo trovare il motivo per reagire e allontanarti dalla mia vita.
Tutti ti sono vicini, ti dicono che devi reagire con il ragionamento. Hanno tutti ragione, ma purtroppo, se non ti convinci in prima persona, rimangono solo parole.
Le parole non sono i fatti. I fatti li devo fare io, dimostrando a me stessa e agli altri che ce la posso fare.

TI VOGLIO UCCIDERE!!!
Non vincerai, perché io sono più forte di te.

Marica

Questa lettera è stata scritta da una paziente con una depressione grave e indirizzata alla sua stessa malattia, o meglio a quella parte di sé depressa che la fa stare a letto e le impedisce di affrontare la vita, a quella parte di sé che la fa buttare a terra a piangere, a quella parte di sé che le fa chiudere gli occhi e camminare lentamente, quella parte di sé che le sussurra con rabbia "tu non ce la farai", a quella parte di sé che le fa chiedere aiuto agli altri, attraverso la domanda retorica "come è potuto succedere" ripetuta tante volte a familiari, parenti e amici. Le risposte date dai parenti a volte con impegno, a volte con rabbia, a volte con tristezza, non erano ascoltate da Marica, che al termine della conversazione comunque riproponeva la sua domanda e di nuovo non ascoltava la risposta, assorbita dalle sue ruminazioni depressive e di ansia.

Anamnesi
Cara Depressione ti scrivo... e io ti rispondo

Marica ha 59 anni, non ha mai sofferto di depressione, nonostante abbia passato un periodo molto duro dopo la morte improvvisa della madre avvenuta diversi anni fa.
A partire da quell'evento non si era più truccata o fatta scattare fotografie, se non in rare occasioni.
Sembrava spenta, tanto che la figlia le aveva consigliato di iniziare un percorso di terapia, ma Marica diceva di stare bene e di non aver bisogno di niente.
Possiamo dire che era una donna socievole ed estroversa, ma che non coltivava hobby e dedicava poco tempo a se stessa. La sua vita erano il lavoro e la casa, non provava particolare piacere a svolgere nessuna attività. Lavorava da oltre 40 anni come impiegata presso la stessa azienda.

A ottobre del 2015, a seguito di una visita medica in cui le avevano riscontrato un calo eccessivo della vista, si convince di avere un male incurabile.
Inizia l'iter degli accertamenti diagnostici, che non portano fortunatamente a niente di rilevante.
Il medico curante ipotizza una diagnosi di depressione e consiglia di iniziare un percorso terapeutico. Marica segue il consiglio e comincia, quindi, a vedere una psicoterapeuta.

La terapeuta, che riceve Marica privatamente dai primi di novembre, fa presente alla famiglia che la donna, trovandosi in uno stato depressivo grave, non è sempre in grado di dialogare su un piano di realtà e affrontare il percorso terapeutico, essendo assorbita da pensieri depressivi e ansiosi. Il percorso poteva offrirle al momento solo un sostegno emotivo.

A fine novembre Marica inizia a sospendere le normali attività quotidiane e a mancare al lavoro. La psicologa psicoterapeuta le comunica che questo periodo depressivo poteva durare a lungo e consiglia alla sua famiglia di starle vicino e stimolarla a fare qualcosa ogni giorno, in linea con le sue possibilità.

La terapeuta decide di accettare di occuparsi della paziente a patto che lei si faccia seguire anche da uno psichiatra.
Marica, dopo qualche settimana di esitazione, incontra lo psichiatra che le propone una terapia farmacologica.

A gennaio/febbraio 2016 Marica non regge più la situazione lavorativa e si mette definitivamente in malattia. Non tornerà mai più a lavoro.

Inizia a tirarsi indietro sul mangiare e i familiari fanno sempre più fatica a farla uscire o a coinvolgerla nello svolgimento delle faccende quotidiane (fare la spesa, cucinare, lavarsi, etc.).
La paziente resta sempre più ore sul letto a occhi chiusi. Il marito deve occuparsi di tutto mentre lei inizia a diventare aggressiva e ad attaccarlo.

La situazione precipita. I due figli fanno quello che possono per aiutare la madre, ma non è sempre facile rimanere calmi quando vedi una persona cara soffrire senza poterla aiutare.

Passano circa due mesi, Marica continua a perdere peso e a non uscire più e a non riscontrare alcun miglioramento rispetto alla terapia farmacologica. Alcuni parenti vicini a Marica cercano di convincere il marito e i figli che l'unica soluzione è il ricovero.
Per i familiari questo è un duro colpo, visto che fino a quel momento hanno sempre pensato che potesse farcela da sola, senza ricorrere all'ospedalizzazione. Ma non c'erano altre soluzioni.

A marzo Marica viene accompagnata al pronto soccorso dell'Umberto I e la dottoressa di turno le fa notare che ci sono tanti modi per morire: smettere di mangiare è uno di questi. Pertanto Marica viene ricoverata la notte stessa presso SPDC dell'Umberto I a Roma.
Il tempo medio di degenza in questo reparto è di una settimana; lei rimarrà lì circa 21 giorni.
La cura farmacologica durante la degenza non sortisce molti effetti.

La paziente, dopo le dimissioni, rimarrà comunque in cura presso uno psichiatra dell'ospedale, che perfezionerà la terapia farmacologica grazie alla quale Marica, nel giro di circa 6 mesi, riscontrerà dei miglioramenti significativi. Parteciperà anche per qualche settimana a dei gruppi di sostegno, sempre presso il suddetto ospedale.

Scegliere di non scegliere

Oltre alla depressione, la protagonista di questa storia ha anche un altro compagno di viaggio: l'ansia. Come due carabinieri a braccetto, la stanno scortando in questo "tunnel", come lo chiama lei, troppo buio e lungo per vederne l'uscita.
E come nei film in cui dicono "Hai diritto a rimanere in silenzio; tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te", così l'ansia e la depressione suggeriscono a Marica di non fare niente, di rimanere immobile per non sbagliare, di stare ferma ad aspettare che le cose cambino, che il mondo ritorni quello di prima, a colori e non più grigio, in bianco o nero come nei film datati e sbiaditi dal tempo.

La testimonianza di Marica ci fa capire che con la depressione inizi a vivere nella paura o a non vivere, "scegli" di non scegliere, hai bisogno di una stampella a cui appoggiarti, sei annullata se stai da sola e non esisti se non sei con un altro a cui ti aggrappi per non cadere. La gente, i negozi, la televisione, il lavoro, tutto quello che prima era la tua routine ora ti spaventa e aumenta la tua confusione.

I parenti ti consolano, ti sorreggono, ti sgridano, si arrabbiano, e la tua impotenza a reagire diventa lo spettro della loro impotenza ad aiutarti. Arrivano anche a minacciarti quando non riescono a tirare fuori più niente dal cilindro.
Anche loro si scontrano con un dolore e una paura che possono provare a capire solo perché l'hanno letta sui libri, su internet o per sentito dire alla televisione.

Criteri diagnostici

I criteri diagnostici per la diagnosi sono quelli che si riferiscono al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5).
Secondo il DSM-5, per fare diagnosi di Depressione Maggiore il paziente deve presentare almeno 5 o più sintomi, per un periodo di almeno due settimane (Criterio A di diagnosi). Nei cinque o più sintomi devono, inoltre, comparire almeno uno dei primi due elencati:

  • Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno
  • Marcata diminuzione di interesse o piacere (anedonia) per tutte o quasi tutte le attività, per la maggior parte del giorno.

Oltre a:

  • Perdita di peso significativa in assenza di diete, oppure aumento di peso o riduzione/aumento dell'appetito quasi ogni giorno;
  • Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;
  • Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno;
  • Fatica o mancanza di energia quasi ogni giorno;
  • Perdita di energia;
  • Sentimenti di auto-svalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi ogni giorno;
  • Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione quasi ogni giorno;
  • Pensiero ricorrente di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, oppure tentato suicidio o piano specifico per suicidarsi.

Gli altri due criteri che devono essere soddisfatti sono:

  • Criterio B. I sintomi devono causare disagio o compromissione clinicamente significative in ambito sociale, occupazionale o in altro ambito funzionale importante.
  • Criterio C. L'episodio depressivo maggiore non deve essere attribuibile all'uso di particolari sostanze o ad altra condizione patologica.

La paziente presenta una sintomatologia clinica "da manuale", ossia con tutti i criteri elencati. Ha interrotto tutte le attività quotidiane (fare la spesa, uscire, occuparsi della casa, etc.) e ha preso un periodo di malattia dal lavoro.

...e io ti rispondo

Cara Marica,
scrivo questa lettera come risposta a questo tuo sfogo, dopo aver conosciuto la depressione da molto più vicino di quanto tu pensi.
Tu, cara Marica, parli della depressione come un nemico da sconfiggere e da uccidere, ma con il tempo e il percorso terapeutico si può sperare che tu riconosca in tutto questo dolore un'opportunità di cambiamento. Come se la sintomatologia, per anni rimasta silente, ora si facesse sentire con maggior forza per darti una scossa, per svegliarti, per farti uscire da quell'apatia di cose fatte senza sentirne effettivamente il senso o il piacere.

Fare per dimostrare, fare per non stare fermi, fare per non pensare...
E poi ti accorgi che il senso di questo fare è solo il vuoto, che non vuoi sentire.

Alla domanda "cosa ti fa star bene" ti rendi conto che non sai dare una risposta, come se lo stare bene fino a quel momento non fosse stato il tuo interesse principale, eri andata avanti facendo e senza fermarti, ma non avevi assaporato la vita e avevi permesso che altre persone scegliessero al tuo posto.

Ora, alle porte dei 60 anni, ti chiedi chi sei e cosa vuoi e non sai darti una risposta; il bilancio della tua vita ti vede in netto svantaggio e adesso che anche tuo figlio ha raggiunto l'età in cui la tua primogenita è andata via di casa, la paura del "nido vuoto" e di restare sola ti spaventa.

Ti scrivo questo per dirti di riprendere in mano la tua vita, avendo ancora tempo per sorridere e far sorridere, per amare ed essere amata, per piangere e consolare.

Le persone che ti stanno vicino, tuo marito e i tuoi figli, si trovano in difficoltà e non sanno come aiutarti: a volte provano rabbia, a volte dolore, a volte tenerezza.

Vedo tuo marito lì a improvvisare il ruolo del salvatore, in un circolo vizioso in cui entrambi giocate a turno i ruoli di vittima e carnefice, di colui che controlla ed è controllato.

Il termine depressione è abusato, diventato spesso e con leggerezza sinonimo di tristezza, ma siamo di fronte a due spessori differenti; la depressione, quella vera, quella con la D maiuscola, ti logora, ti fa dimagrire, ti costringe a letto a pensare...

Come uscirne?
La terapia farmacologia in molti casi serve da stampella per permettere alla persona di rialzarsi, ma il vero lavoro lo devi fare tu all'interno del percorso di terapia e di vita.

Ti stai chiedendo come faccio a sapere tutte queste informazioni su di te?
Io ti conosco bene e conosco bene la depressione perché io sono la tua depressione e ti scrivo per chiederti di non cacciarmi via senza avermi ascoltato... non ti lasciare abbattere da me... ma partendo da quel vuoto interiore, quella mancanza di piacere, prova a riscoprire te stessa.

Il vero modo per liberarti di me è ascoltarmi, ascoltare cosa ti sto dicendo: perché sono arrivata proprio adesso? Cosa succede ora nella tua vita? Di cosa hai paura? Quale minaccia vedi nel tuo futuro?

Posso essere anche un'opportunità, per cambiare qualcosa che non ti piaceva del tuo presente.

Proviamo a girare il mondo insieme, per un po'...
Io e l'ansia non siamo così terribili come tutti dicono, ti stiamo solo segnalando che qualcosa non va, che il tuo piccolo mondo non era poi così perfetto.

Non provare a UCCIDERMI, ma ASCOLTAMI.
È solo un modo urlato per costringerti a prenderti cura di te... senza aspettare che lo facciano gli altri al tuo posto, senza aspettare che sia un altro a renderti felice...

Con affetto,
la tua Depressione

Sviluppo dei sintomi della depressione di Marica

La paziente che ha scritto la lettera è stata ricoverata al SPDC. Come riportavo nell'anamnesi, la dottoressa che l'ha accolta al pronto soccorso ha detto che "si possono scegliere tanti modi per suicidarsi e smettere di mangiare è uno di questi". La paziente, infatti, aveva perso circa 12 kg in soli due mesi e sembrava essere l'ombra della persona vitale che era. Si stava lasciando morire.
I familiari non si sono arresi: si sono arrabbiati, hanno pianto, si sono allontanati, si sono avvicinati, le hanno proposto cose da fare e si sono scontrati con i suoi no. Dopo qualche giorno in cui hanno evitato di parlarle perché adirati, hanno aggiustato il tiro e cercato un nuovo compromesso tra la paura di Marica e il loro desiderio di potersi prendere cura di lei e aiutarla.

Come dico spesso ai genitori, i figli fanno i figli, con tutto ciò che ne comporta: capricci, ricerca d'affetto, voglia di esplorazione...
Allo stesso modo, questa persona fa la malata, con tutti i suoi dinieghi, il non volersi prendere cura di sé, il non mangiare, sfida l'altro per definirsi, in una partita rischiosa con la morte.
Le persone affette da depressione sentono le emozioni in maniera meno forte (Marica diceva sempre di non provare più niente) e questo li rende più potenti dei familiari. I pazienti depressi, non avendo cognizione del loro male e non empatizzando con il malessere altrui, possono chiudersi a riccio, mettersi sul divano e non alzarsi, rimanere a letto; la depressione li rende in un certo senso invincibili, perché sembra che non abbiano niente da perdere. Qualsiasi sia il gesto del familiare per avere da parte del paziente depresso una reazione, sarà inefficace, perché questo è incapace di sentire la disperazione di chi gli sta davanti.

Un anno dopo

Marica sta meglio. Ha cambiato diverse terapie farmacologiche e alla fine i medici dell'ospedale Umberto I di Roma - dove è stata ricoverata - hanno trovato la cura per la sua depressione.
È ancora forte in lei il pensiero che "tutto questo non le doveva succedere".
Fatica molto a prendersi degli spazi personali, terapeutici e di lavoro su sé stessa.
Ha perso il lavoro e sta molto tempo a casa, ma se invitata ad uscire accetta, soprattutto in quelle situazioni in cui tutta la famiglia si riunisce.
Durante le feste i familiari sono stati contenti di vedere che lei stessa ha deciso di farsi i capelli e la manicure.
Piccoli passi in avanti.
La mia speranza e quella della sua famiglia è di vederla ancora sorridere. E quindi Marica, ti aspettiamo!!!

Attualmente

Marica continua la terapia farmacologica, che dovrà mantenere invariata nei prossimi mesi e potrà scalare solo quando l'umore e il quadro clinico saranno stabili almeno per un anno.
Ora la paziente svolge le attività della vita quotidiana, cerca di uscire con delle amiche, si muove sempre in presenza del marito e della figlia, ma è molto più attiva, propositiva e presente a se stessa e agli altri.

Conclusioni

Mi auguro che questa lettera possa aiutare i colleghi psicologi e psicoterapeuti a comprendere meglio la depressione da dentro, oltre i sintomi asettici che si leggono sul DSM.
Invito quanti hanno in terapia pazienti depressi a spiegare loro l'importanza di darsi l'opportunità di capire cosa ci vuole comunicare la malattia, quale messaggio ci sta mandando, per non cadere nella trappola della dipendenza dal sintomo, che comunque comporta innumerevoli vantaggi (persone che ci stanno accanto, che ascoltano, che danno consigli, etc.).
Imparare a capire cosa il sintomo ci sta segnalando, accettare la sintomatologia e le emozioni ad esso connesse, paura e tristezza, è il primo passo per la consapevolezza e per la possibilità di uscire dalla malattia.

Invito, inoltre, i colleghi a convocare dove possibile i familiari più prossimi al paziente in una seduta, per sostenerli in questo momento così difficile e dare spazio al loro vissuto.
Consiglio di far capire loro quanto sarà dura e prepararli il più possibile a quello che dovranno affrontare in termini emotivi.
Coloro che hanno il coraggio di rimanere a fianco alla persona che soffre, spesso senza poter fare niente, possono essere considerati degli eroi, non nel senso che potranno vantarsi della loro impresa, ma nel senso che devono rendersi conto del loro valore anche se i risultati delle azioni che mettono in atto per le persone care non sempre sono soddisfacenti.
Quando vorranno cedere, dovranno ricordarsi che "il malato fa solo il malato".
Non sta sfidando noi, sta solo manifestando il proprio dolore e in questo modo chiede aiuto.

Riflessioni personali

Questa lettera e l'esperienza vissuta mi hanno permesso di respirare la depressione in maniera formativa. Nonostante il lavoro terapeutico fatto personalmente e il mio background come psicologa psicoterapeuta, devo dire che ho toccato con mano il limite stesso delle mie possibilità. La vicinanza emotiva con il paziente e con i suoi familiari non vi nego che ha suscitato in me molta rabbia e senso di impotenza.
Chiamata in causa come "persona" di famiglia, in qualità di professionista, l'aspettativa nei miei confronti era molto elevata o forse io la sentivo così. Sicuramente per tentativi ed errori ho provato molte strategie e non di tutte mi sono sentita fiera. Mi ha aiutato una collega che mi ha detto "non c'è niente di quello che fai che necessariamente funziona a priori".

Senza mai prendere la delega di poter salvare il paziente, è potenzialmente utile sostenerlo emotivamente nella fase grave e acuta e, a seguito del necessario trattamento farmacologico e della conseguente attenuazione della sintomatologia, lavorare con la persona sulla consapevolezza del problema e sulla sua capacità di farvi fronte.

Non mi rimane che concludere questo articolo con una parola di speranza e un augurio a tutti coloro che hanno vissuto in prima o in terza persona una situazione simile.

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