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La patologia autistica: una visione psicodinamica

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La patologia autistica: una visione psicodinamica

L'articolo "La patologia autistica: una visione psicodinamica" parla di:

  • Autismo fisiologico e patologico
  • La mancanza dell'Io pelle e il rifugio nel soma
  • Paura del creativo e dell'emotivo
Psico-Pratika:
Numero 196 Anno 2023

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Articolo: 'La patologia autistica: una visione psicodinamica'

A cura di: Rebecca Farsi
    INDICE: La patologia autistica: una visione psicodinamica
  • Introduzione
  • L'eziopatogenesi psicodinamica: il deficit dell'intersoggettività diadica
  • Tra autismo fisiologico e patologico
  • Le sensazioni, lo spazio, la bidimensionalità
  • La mancanza dell'Io pelle e il rifugio nel soma
  • Paura del creativo e dell'emotivo
  • L'autismo solo ove ce n'è bisogno
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
Introduzione

Il termine autismo, di etimologia greca, indica una condizione di vita autoreferenziale, totalmente indifferente a stimolazioni o relazioni di natura esterna. Sarebbe tuttavia erroneo credere che l'autistico incentri la propria esistenza sulla considerazione del Sé a discapito dell'alterità, essendo in realtà inconsapevole di quest'ultimo aspetto come del primo. Il paradosso è che l'autistico vive nel Sé e per il Sé, pur in assenza di un'autoconsapevolezza specifica (Tustin, 1981). La sua è una dimensione di isolamento emotivo e povertà comunicativa, cui si accompagnano mancanza di investimento relazionale, una ristretta gamma di interessi, condotte stereotipate, spesso un ritardo cognitivo. L'autismo costruisce una membrana protettiva, all'interno della quale si racchiude difensivamente, espungendo il resto del mondo.

L'eziopatogenesi psicodinamica: il deficit dell'intersoggettività diadica
La patologia autistica: una visione psicodinamica

Le cause di insorgenza dell'autismo appaiono ancora piuttosto sconosciute, sebbene un'eziopatologia biologica del disturbo appaia ormai consolidata. Nello specifico, esso sembrerebbe collegato a una disfunzionalità genetica complessa, oltre a presentare un'anomalia morfologica legata soprattutto alla corteccia prefrontale - fondamentale nello sviluppo delle emozioni e nella teoria della mente - e nella corteccia visiva del lobo temporale, coinvolta nell'elaborazione facciale (Vivanti, 2022).
La prospettiva di un'eziopatogenesi meramente biologica appare tuttavia riduttiva, soprattutto in riferimento allo studio di una disfunzione così complessa e pervasiva. In coerenza con i principi della teoria biopsicosociale, attualmente dominante anche in ambito clinico, sembra più opportuno attribuire l'insorgenza del disturbo a un'interazione patogena tra differenti fattori biologici, socio ambientali ed emotivo-individuali.
A tal proposito la psicodinamica ha evidenziato come la qualità del legame intersoggettivo stabilito con l'oggetto materno, già nelle prima fasi della vita, possa svolgere un ruolo sostanziale nello sviluppo della sindrome.
A rivelarsi destrutturante sarebbe in particolare la mancata percezione di una presenza materna affettiva e costante, cui conseguirebbe il consolidarsi di stati di ritiro difensivo e vuoto identitario tipici di questa dimensione patologica. È nota la definizione, lungamente discussa, di madri frigorifero, con la quale Bettelheim (1967) sintetizza il nocumento procurato da un close physical contact deficitario, un'assenza oggettuale che spinge alla frustrazione continuata del proto-desiderio di prossimità e vicinanza corporea, fino all'alterazione dei confini del Sé e del Sé con l'altro (Bick, 1963).
La madre di un autistico ha probabilmente - e molto spesso involontariamente - mancato nella costruzione di un'intersoggettività diadica reciprocante, che nelle prime fasi di vita si esprime attraverso l'attivazione stimolante dei canali sensoriali, gli unici strumenti che il bambino ha a disposizione per differenziarsi da un ambiente sconosciuto e inconoscibile.
I canali sensoriali sono i protagonisti assoluti delle prime forme di esperienza e di conoscenza. Tatto, vista, sguardo, olfatto, udito, gusto e infine un sesto, che consente l'attivazione contemporanea anche degli altri cinque: l'abbraccio materno, che orienta, sostiene e direziona le sensazioni.
Sono le percezioni sensoriali le uniche esperienze di vita in cui mente e corpo convergono totalmente, ed è a partire dalla maturazione intersoggettiva delle stesse che prende vita la dimensione psicosomatica (Crocetti, 2022). Ed è proprio attraverso un contatto corporeo affettivamente presente che prende il funzionamento dell'Io, i cui rudimenti lo ricordiamo, sono essenzialmente corporei (Anzieu, 1987; Freud, 1922).
Un'assenza affettiva materna prolungata, il c.d. holding interrotto, causa la depauperazione - ove non lo spegnimento - dei canali sensoriali e somatici, a seguito della quale la stessa energia vitale subisce un arresto. Si tratta di interferenze ambientali che possono interrompere, nel bambino, la percezione della continuità dell'essere (Winnicott, 1971). Aspetto, quest'ultimo, garantito dalla presenza di una madre che risponde, che contiene, che è presente. Fisicamente ma soprattutto affettivamente.
È in particolare la mancanza di una tensione desiderante a creare senso di isolamento e rifiuto, a seguito del quale le potenzialità comunicative e relazionali vengono sostituite da una sensazione di vuoto mortifero che impone una reazione difensiva autoplastica: in questo senso il ritiro autistico viene in questo senso inteso come l'esclusione assoluta dalla dimensione reale e dall'impulso vitale (Crocetti, 2022).
Il valore difensivo di questa chiusura viene messa in evidenza da Steiner (1993), che definisce il ritiro autistico come il tentativo di mettersi al riparo da un senso di angoscia distruttiva, tramite il rifugio in una zona emotivamente asettica e fisicamente invalicabile. La stessa Mahler (1968) osserva come i bambini autistici tendano a incapsularsi all'interno di uno spazio emotivamente inviolabile perché, una volta che la loro corazza è stata perforata, essi diventano particolarmente vulnerabili alla sensazione di essere indifesi ed esposti alla separazione, cui consegue l'invasione di un'angoscia destrutturante. Il ritiro difensivo diventa per questo una necessità volta a evitare l'impatto distruttivo con sensazioni e contenuti emotivi che, in assenza di un'adeguata reverie, rischiano di trasformarsi in un elemento mortifero.
Ma il ritiro in un mondo fatto di vuoti e di silenzio, se da una parte riesce a contenere la solitudine e la distruttività primaria, dall'altra si mostra un ineludibile ostacolo alla formazione della personalità, che si farà portatrice di quello stesso vuoto - identitario e affettivo - dal quale è stata generata.
La mancanza di autoconsapevolezza, tipica dell'autismo, impedisce inoltre il compimento di un processo di differenziazione adattivo, rendendo pericolosamente simili contesti di vita e di morte, di pulsione e di distruzione, cui il Sé non strutturato prova a porre rimedio proprio tramite il rifugio in un mondo auto-sensitivo che può essere controllato. A patto che questa corazza difensiva risulti impenetrabile e non venga mai valicata da una stimolazione esterna.
Meltzer (1963) sostiene che questi bambini nascono in un momento in cui i genitori attraversano uno stato di separazione, di dissidio o di particolare inquietudine, e per questo risultano totalmente destabilizzati dall'evento nascita, di cui riescono a cogliere solamente gli aspetti critici. In particolare sembra che la madre sia coinvolta in stati di depressione, condizione patologica piuttosto frequente nel post partum, che contribuisce a disattivare o a limitare notevolmente le condotte responsive e accuditive.
Una condotta depressiva materna contribuisce a depauperare le istanze affettive nei confronti del bambino, diminuendo la motivazione alla premura genitoriale e favorendo la comparsa di stati emotivi inadeguati rispetto a quelli imposti dalla genitorialità: anedonia, colpevolizzazione, distanza emotiva verso il figlio, senso di inadeguatezza, percezione del neonato come di un oggetto persecutorio, prendono il posto di una maternità consapevole ed empatica. Molte madri si sentono letteralmente aggredite dall'evento nascita, e nel tentativo di liberarsi di questo vissuto angoscioso e disintegrante, usano il meccanismo della proiezione. Dunque il bambino non rappresenta un oggetto da amare e da accudire, ma un frammento persecutorio che con la sua nascita ha letteralmente depauperato il Sé materno.
Altre si sentono come se l'evento gravidanza le avesse private di una parte del loro stesso corpo (Hayman, 1962, Mahler, 1963), e la consapevolezza di questa perdita del Sé, unita allo scarso sostegno ricevuto dall'ambiente circostante, favorisce l'abbandono della maternità consapevole, agevolando l'insorgenza di quella holding interrotta che si mostra fonte generatrice, sebbene non in via automatica, di condotte autistiche.

Tra autismo fisiologico e patologico

La psicodinamica evidenzia la natura non necessariamente patologica dell'autismo. Specificamente nelle prime fasi della vita, quando non si è ancora verificata un'adeguata differenziazione somatopsichica dal nucleo corporale materno, il bambino si sente unito in una simbiosi indissolubile con la madre: è dunque fisiologico imbattersi nell'assenza di qualsiasi investimento affettivo, relazionale come di qualsiasi consapevolezza oggettuale. L'infans si limita a replicare aspetti della vita intrauterina - quella fusione oceanica (Freud, 1929) con il corpo materno che ha preceduto la nascita - aggrappandosi alla stessa in un'illusione di sconfinatezza spazio temporale. Egli crede dunque che quella sensazione di un tutto indifferenziato, beatifica e rasserenante, sarà destinata a perdurare nel tempo.
Nei suoi studi volti a definire il ruolo dell'Io nel processo di adattamento alla realtà la Mahler (1968) distingue:

  • una fase autistica fisiologica, in cui un'assenza relazionale e un disinteresse relazionale si mostrano elementi in linea con la scarsità di risorse psicofisiche del bambino, e per questo destinati a scomparire con l'avanzamento del percorso evolutivo;
  • un autismo patologico, in cui la non consapevolezza del Sé e dell'alterità non costituiscono il frutto di un'immaturità emotiva, ma il meccanismo di difesa verso un abbandono materno precoce, la rottura di un contesto diadico destinato a consolidarsi nel tempo, con effetti deleteri sulla costruzione della personalità.

"La differenza tra l'autismo normale e quello patologico è un grado, piuttosto che un genere. Si potrebbe dire che l'autismo è uno stato di prepensiero, mentre l'autismo patologico è uno stato di anti-pensiero" (Tustin, 1981, p. 12).
In assenza di una figura materna responsiva e contenitiva, non può aver luogo il processo di interiorizzazione di un oggetto affettivo attendibile, e con esso della realtà simbolica. Un'intersoggettività diadica deficitaria o precocemente interrotta crea un vuoto identitario che impedisce il contatto con il Sé e con la realtà esterna, e spinge a cercare rifugio in una dimensione di totale isolamento. Il bambino autistico non possiede alcuna consapevolezza dell'alterità, e allo stesso modo è privo di ogni pulsione relazionale, di ogni attaccamento o desiderio dell'altro.
Il vuoto affettivo infrange il senso di continuità corporea, rendendo impossibile l'integrazione di stati psicosomatici all'interno della dimensione emotiva e cognitiva. Le stesse emozioni vengono ridotte ad agiti stereotipati, in quanto private della loro componente affettiva, declassate al ruolo di entità meccaniche che è possibile scomporre, destrutturare, de animare in una presumibile finalità di controllo. Esattamente come avviene nel funzionamento psicotico, seppur con un grado patologico ancora maggiore. Un bambino psicotico è infatti riuscito a maturare un processo di differenzazione dalla madre, per quanto primitivo e rudimentale. Egli si sente altro dall'oggetto materno. Ciò che non riesce ad accettare è la possibilità di separarsi da esso, a causa della tipologia fusionale che connota le sue modalità relazionali.
Al contrario si osserva come nell'autismo sia la stessa consapevolezza dell'alterità a far difetto. Egli non avverte il proprio Sé simbioticamente unito al Sé di un altro: semplicemente non percepisce nessuno dei due.
"Il bambino autistico è quello che non ha mai investito di carica libidica né la madre né le sue somministrazioni, mentre il bambino psicotico simbiotico è quello che è fissato o regredito allo stadio di rapporto col preoggetto, nel quale la rappresentazione della madre è presumibilmente fusa con quella del Sé" (Mahler, 1968, p. 85)... E "quando la regressione simbiotica non riesce il bambino è spinto nella situazione autistica... Qui subentra un ulteriore panico dell'organismo, quello della paura della disintegrazione, della perdita completa del senso dell'entità e dell'identità, di essere cioè re inghiottiti dall'oggetto simbiotico" (Mahler, 1968, p. 89).
Nel descrivere la natura patologica degli autistici, Winnicott (1958) parla di bambini che hanno dovuto reagire troppo presto a un dolore abbandonico, in ragione del quale quei canali sensoriali in grado di mettere in contatto con il mondo esterno vengono totalmente siderati, creando dei nuclei di vuoto abissale.
Seguendo la medesima traiettoria, la Tustin (1981) asserisce come il difetto del sostegno materno svolga un ruolo fondamentale nell'insorgenza del disturbo autistico, soprattutto in quella fase che consente di realizzare la consapevolezza della differenza corporea con la madre, attraverso un giusto contesto di holding.
La madre tiene e contiene il bambino, manipolandolo tra le sue braccia con una tensione motivante, in grado di incanalare funzionalmente i percetti sensoriali potenzialmente minacciosi dallo stesso sperimentati. Nella graduale creazione di questo ambiente evolutivo, che Crocetti (2011) definisce ambiente culla, la psiche si insedia nel corpo non come oggetto persecutorio, ma come un elemento sinergico in grado di formare consapevolezza del Sé, dell'altro e del Sé con l'altro.
Al contrario, una holding interrotta o inattendibile priva il bambino di quel sostegno affettivo che lo rende in grado di costruire le basi per una propriocezione autoregolata, in cui la differenziazione non viene avvertita come una minaccia, ma come una fonte evolutiva di creatività ed esplorazione. Da qui il ritiro autistico come l'estrema difesa da un'angoscia inconcepibile in cui l'assenza difensiva dal Sé si traduce in assenza del Sé.

Le sensazioni, lo spazio, la bidimensionalità

Il mondo dell'autistico è costruito e regolato sulla base di sensazioni. Percezioni fisiche che non vengono tuttavia utilizzate con finalità esplorativa né mostrano alcun intento relazionale con gli oggetti circostanti: fa difetto, nell'autistico una tensione desiderante verso l'altro. E le stesse risposte sensoriali di cui va compulsivamente alla ricerca rappresentano solo una conferma esistenziale in grado di salvare dall'angoscia distruttiva del "non me".
Tutte le energie del soggetto autistico vengono utilizzate per creare una coltre protettiva di "sensazioni del me che tengano lontano dal non me" (Tustin, 1981). Ma la percezione non ha finalità organizzative né categorizzanti: egualmente il gesto, privo di ogni significato simbolico-metaforico, viene ridotto ad una mera scarica motoria.
Gli oggetti vengono considerati come un'estensione del proprio corpo, tanto che, ove ne venga separato, egli percepisce la sensazione di essere stato privato di una parte vitale del Sé (Tustin, 1981). Il modo in cui li manipola, li rigira tra le dita, li chiude all'interno della mano, mostrando un pervicace attaccamento agli stessi, costituisce la dimostrazione di un approccio esplorativo totalmente fisico, concreto e indifferenziato dal Sé.
"La sensazione di avere qualcosa in mano o in bocca fa esistere l'oggetto. Non sentire, lo annulla" (Tustin, 1918, p. 54). In questa prospettiva il soma diviene un oggetto autosensuale con cui contenersi, una fonte di sensazioni autogenerate e contenitive in grado di costruire una sensazione di salvezza da un vuoto precipitante: ma la realtà esterna non viene giudicata come altro da Sé, risultando anch'essa una mera fonte di sensazioni.
Tutto è concreto, nella dimensione psichica imposta dall'autiismo. E se le parole vengono percepite come oggetti minacciosi incistati con forza dentro di lui (Tustin, 1981), persino la madre è identificata esclusivamente attraverso connotazioni prettamente fisiche: il rumore di una porta che ne preannuncia l'arrivo, il cigolio della maniglia, il profumo del suo vestito. Per di più si tratta di conoscenze limitate al dettaglio: l'autistico non possiede una visione sintetica della realtà, limitandosi a una concezione sincretica e frammentaria della stessa. La madre è un oggetto parziale, e nello stesso modo l'intera realtà che lo circonda assume caratteristiche di dettaglio.
Ma se l'oggetto materno non viene percepito interamente non potrà neppure essere introiettato, e questo impedirà non soltanto la formazione di confini interni ed esterni al Sé, ma non consentirà neppure la formazione del concetto di spazio tridimensionale.
Vediamo come nell'autistico faccia difetto una piena consapevolezza della profondità. La percezione dell'ambiente e del proprio corpo è limitata a una bidimensionalità informe e appiattita, alla quale egli si appoggia in una modalità adesiva più che penetrativa, nel disperato tentativo di difendersi da sensazioni di frammentazione, di caos distruttivo. in poche parole, dalla terribile angoscia del non me.
Si tratta della tendenza adesiva che la Tustin ha avuto modo di riscontrare nei lunghi e complessi trattamenti condotti su pazienti autistici, e di cui ha fatto menzione nei suoi numerosi resoconti osservativi: nel valutarne le condotte adesive - molti di loro si rifiutavano di abbandonare il contatto con la superficie di un oggetto o con lo stesso clinico - ella li definiva "pazienti appiccicosi" (1981).
Solo se si appiccica in una finalità imitativa e compenetrante, avvertendo la concreta sensazione di un elemento piatto che sostiene e tiene unite tutte le parti del Sé, l'autistico si convince di aver scongiurato il rischio di frammentazione, di liquefazione nel nulla mortifero da cui cerca di proteggersi.
È l'immensa differenza tra afferrare e incollarsi, aderire. Aggrapparsi, aderire come un parlare adesivo, è bidimensionale. Non c'è ancora lo spirito qui. Una volta che voi afferrate, voi stringete abbracciando, allora avete la terza dimensione. è un punto cruciale, voi potete mettere dentro delle coe, potete cominciare a introiettare e proiettare. Allora ha luogo il cominciamento. Lo spirito è qui (Bick, 1961; 1963).
È la Bick a parlare per prima del concetto di adesività, intesa come pulsione ad attaccarsi a una superficie che contenga e rinsaldi le parti fluttuanti del Sé. Solo una volta che il bambino ha superato l'angoscia di cadere nel vuoto potrà cominciare ad afferrare. Solo quando si sentirà sufficientemente contenuto sarà in grado di percepire lo spazio come un elemento da attraversare in una finalità esplorativo-penetrativa, senza l'angoscia di cadere in pezzi. E soltanto una volta che la tenuta materna sarà stata introiettata potrà iniziare a percepire la gravità (Bick, 1963; 1967). Fino a quel momento lo spazio sarà considerato un elemento minaccioso da rifuggire tramite una condotta adesiva per evitare l'impatto spaventoso col vuoto, il nulla pervasivo (Spensley, 1997).

La mancanza dell'Io pelle e il rifugio nel soma

La funzione di contenimento permette lo sviluppo dell'introiezione e la capacità di elaborare uno spazio interno che si differenzia dal mondo esterno; ma si mostra anche uno strumento utile per collocare il Sé corporeo all'interno dell'ambiente, stabilendo i confini somatici ed epidermici.
Si può sostenere che per il bambino molto piccolo l'esistere sia come un torrente di sensazioni, da cui emergono costrutti come entità senza nome... (Tustin, 1981, p. 67).
Le entità senza nome cui la Tustin fa riferimento non sono altro che gli orifizi, gli organi esterni che il bambino realizza di possedere: la bocca, le dita, le mani. Egli esplora, tocca, afferra. Non è consapevole dell'utilizzo che può fare di certi strumenti. Si limita a giudicarli con una sorta di curiosa diffidenza che favorisce l'introiezione identificativa con il mondo oggettuale, e la creazione dell'Io pelle (Anzieu, 1987) con cui si distingue dalla realtà, pur sentendosene elemento integrante e integrato.
Fino a che il lattante non avrà formato una consapevolezza della propria pelle e sentirà di essere contenuto da questa e in questa, non potrà percepire neppure che è questa stessa pelle a separarlo dal corpo della madre e dal resto della realtà.
Ma al di là di un significato puramente biologico, la pelle costituisce anche il confine del proprio spazio psichico, il limite di una dimensione interiore in fieri che si prepara a relazionarsi funzionalmente con il soma. Processo, quest'ultimo, consentito da un'interazione diadica costante e ben gestita, in cui la presenza della madre, ab origine unico oggetto regolatore, viene destinata a un ruolo sempre più periferico per lasciare spazio alle pulsioni autonomistiche.
È grazie allo sviluppo della pelle psichica che lo spazio esterno acquista una valenza anche emotiva, divenendo fonte di introiezione oggettuale, grazie alla quale la stessa madre può essere interiorizzata come oggetto buono cui aggrapparsi in una finalità identificativa.
L'autistico non raggiunge al contrario alcuna consapevolezza dell'Io pelle, inteso nel duplice aspetto di membrana epidermica - a tutela dei confini somatici - e di delimitazione fantasmatica - a tutela dello spazio psichico.
L'unica percezione possibile, nel suo mondo piatto e bidimensionale, sarà l'intuizione di uno "spazio senza interno", che sostiene ma non contiene. Aderisce ma non introietta. Egli è consapevole di spazi interni solamente come contenuti entro superfici esterne (Tustin, 1981, p. 54).
Le conseguenze patologiche di questo vuoto introiettivo non si mostrano trascurabili. In primo luogo una confusività identitaria, causata dall'impossibilità di collocarsi consapevolmente e adattivamente nel mondo (Bick, 1967, p. 126).
Il bambino autistico si sente letteralmente fluttuare nel vuoto, preda di sensazioni e angosce ingestibili. Egli si avverte come il frammento di un tutto indistinto e minaccioso, che non lo rinforza né lo sostiene.
L'unico strumento per creare i confini protettivi di cui avrebbe necessità è la formazione di una seconda pelle, sostituiva di quella materna, grazie alla quale il terrore di frammentazione può essere gestito. E questa seconda pelle, questo surrogato del contatto affettivo materno, è rappresentata dal corpo.
In questo senso il soma diventa un clinging securizzante, una sorta di confine contenitivo e identificativo del Sé, un modo per garantire l'omeostasi che, in assenza di una presenza materna attendibile, rischia di venir danneggiata da un'iperstimolazione subissante.
Il bambino fa appello alla propria muscolarità per difendersi dalla minaccia di non integrazione: si tiene insieme attraverso il contatto fisico, avvalendosi di un'iperattività motoria con cui sostituisce la protettività poietica dell'abbraccio materno.
Cerca di dondolarsi, talvolta si irrigidisce. Il suo dinamismo, disorganizzato e incoerente, viene evacuato afinalisticamente mediante un movimento compulsivo delle braccia o delle gambe, un pianto intenso e ininterrotto, un evitamento del contatto corporeo con l'altro, a sua volta sostituito da una fuga precoce verso l'autosensorialità e l'ipereccitazione, che lo porta a costruire relazioni securizzanti con i suoi stessi organi, cui si attacca per avere la certezza della loro esistenza, e al contempo per affermare la propria (Spitz, 1958; Negri, Curley, 2001).
Nascono così le stereotipie e le sensazioni autogenerate come il dondolio, l'agito compulsivo del dito in bocca, l'irrigidimento muscolare: condotte autoconsolatorie che è possibile riscontrare nei bambini istituzionalizzati, per i quali il soma diventa uno strumento di relazione, di esplorazione, ma soprattutto di contenimento, un surrogato di quella holding interrotta la cui presenza avrebbe fornito le risorse utili a costruire un contesto evolutivo desideroso - e non spaventato - dall'altro da Sé (Spitz, 1958).
Il fatto di non trovare un oggetto contenitore e contentivo impedisce uno sviluppo mentale normale (Bick, 1963, p. 53). Per questo la corazza muscolare può costituire un valido sostituto del nucleo securizzante materno, consentendo al contempo una pseudoindipendenza.
L'investimento sul Sé somatico riempie la desertificazione emotiva, il collasso identitario provocato dalla nullità della presenza materna. Il soma invade la psiche agendo al suo posto, ma in realtà è la psiche che forclude il corpo, compromettendone ogni funzionalità relazionale, ogni significanza simbolica, per divenire la mera espressione di un Sé corporeo in fuga dal non sé.
Manipolando il proprio corpo il bambino si contiene da se stesso e in se stesso, ma il prezzo da pagare è elevato: rendere quella stessa capsula protettiva - rappresentata dal soma - un elemento attraverso cui isolarsi totalmente dalla realtà. Così viene raggiunto l'effetto paradossale: mentre cerca di connettersi a una dimensione reale mediante l'elemento percettivo-sensoriale, è questo stesso elemento che, privo di ogni capacità trasformativa e immaginativa, lo allontana definitivamente dalla stessa.

Paura del creativo e dell'emotivo

Il bambino autistico è privo di fantasia, di capacità rappresentativa o metaforica. Non conosce gli oggetti se non attraverso il canale tattile, al quale si affida in una finalità confermante e supportiva. Come si trattasse di una madre. Non è reperibile in lui quella pulsione epistemofilica, quell'attrazione per la novità e per la conoscenza che, partendo dalla curiosità di esplorazione del corpo materno, si fa spazio verso una più ampia conoscenza del Sé e della realtà (Klein, 1928).
La novità viene anzi connotata di una valenza minacciosa e distruttiva, perché in grado di destabilizzare un'omeostasi garantita esclusivamente dalla routine: quel ripetersi di reazioni afinalistiche nelle quali l'autistico trova la propria corazza difensiva, il mezzo non egoico per salvarsi da un senso di persecutoria non esistenza e dal fagocitante vortice del non me.
La condotta stereotipata testimonia al contempo un deficit di creatività, di poiesi trasformativa che consente la modifica di un'angoscia traumatica in un'emozione non più persecutoria, ma gestibile e arricchente.
La stereotipia, intesa come successione continuativa di agiti non significanti ha in sé qualcosa di securizzante, laddove nel cambiamento latita qualcosa di terrifico e mortale, perché al bambino non è stata fornita la capacità trasformante dell'esperienza negativa.
Competenza offerta dalla madre, che sostituisce le deboli risorse egoiche del figlio con le proprie, metabolizzando la realtà al suo posto e consentendogli di costruire un'onnipotenza illusoria in grado di rafforzare la consapevolezza del Sé. È grazie alla trasformazione adattiva della madre se un'esperienza traumatica come la separazione, o un semplice stimolo somatico come la fame o il sonno, possono risultare de-intensificati, e restituiti al bambino in una foggia meno minacciosa.
La madre non è ancora identificata come altro da Sé, ma è vissuta come un processo di trasformazione... ella trasforma continuamente il mondo del bambino per soddisfarne i bisogni (Bollas, 1989, p. 4). La madre ambiente è il primo oggetto trasformativo con cui l'infans si confronta: ove sintonizzata sulle sue esperienze interiori, financo quelle più traumatiche, ella aiuterà il bambino a fronteggiare l'angoscia del cambiamento, inteso come modifica incerta e inesplorabile del Sé e del contesto che lo circonda. Ma se la madre è un oggetto frustrante e anaffettivo - se la madre è essa stessa un oggetto bidimensionale e traumatizzante - colludere con una prospettiva autoisolante si rivela il processo difensivo a tutela di un Sé non adeguatamente confermato.
Nel contesto evolutivo dell'autistico il legame diadico ha incrementato le angosce di morte, rendendole terrifiche. La madre non ha validato le sue sensazioni psicosomatiche, e così facendo non ha neppure conferito una valenza semantico-metaforica alla sua dimensione psichica, per renderla esprimibile tramite il simbolo e la parola (Spitz, 1958). Da qui l'angoscia verso elementi di cui è impossibile mantenere un rigido controllo.
Tutto ciò che l'autistico non riesce a monitorare, qualsiasi cosa non si mostri in linea con l'immutabile script routinario inciso nella sua mente, viene sfuggito come una minaccia. Il cambiamento rappresenta un crollo previsionale non sostenibile, ed è proprio per proteggersi dagli effetti caotici di un nuovo non conosciuto che si rifugia all'interno di una capsula difensiva, spesso disegnando cornici e spazi in cui si chiude letteralmente: al fine di gestire l'invasione percettiva angosciante che deriva dalla scoperta.
L'autistico non si fida del'astratto: preferisce affidarsi a ciò che può vedere, che può toccare e percepire, a ciò che può smontare, scomporre e ricomporre a piacimento. Perché la dimensionalità concreta è la sola con cui riesce a rapportarsi in una seppur fragile connotazione di controllo. Laddove l'immaginazione, il pensiero, la fantasia, proprio perché inafferrabili e incontrollabili, gli appaiono così minacciose.
Nel suo testo Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti, la Tustin descrive l'autismo come un incapsulamento autoprodotto e dominato dalle sensazioni, simile a un guscio duro che blocca lo sviluppo psicologico. Ma per quanto si tratti di una condizione pervasiva che coinvolge l'intera personalità, è forse opportuno che l'assenza del Sé nell'autistico non venga imputata ad una totale assenza emotiva.
L'autistico non è un soggetto privo di capacità emotive, come si tende erroneamente ad affermare: egli è piuttosto spaventato da una dimensione emozionale che non riesce a leggere né a esprimere compiutamente, a causa di un trauma precoce e siderante che lo ha indotto a temere il valore poietico delle stesse. Da qui il silenziamento dei canali emotivi che alimentano anche l'aspetto cognitivo, linguistico e relazionale, consentendo la creazione di un Sé - e in seguito di un Io - pienamente coesi.

L'autismo solo ove ce n'è bisogno

"L'autismo è una psicosi grave e rara, che non prevede il funzionamento dell'Io a seguito del danneggiamento dei precursori delle funzioni egoiche" (Crocetti, Stegher, 2022, p. 15).
Questa importante precisazione offre lo spunto per evidenziare la necessità di una prudenza diagnostica nell'indagine del disturbo, ammettendone la presenza esclusivamente nei casi in cui non risulti ravvisabile alcun funzionamento egoico - inteso come valido collegamento con il Sé interno, con il Sé corporeo e con la realtà - e in cui la relazione oggettuale e la stessa consapevolezza dei confini somatopsichici appaiono inesistenti. Non è il caso di individuarne la presenza in ogni difficoltà comunicativa, emotiva o relazionale possa comparire nella prima infanzia. Laddove sussista la possibilità di intravedere la parvenza di una seppur minima consapevolezza oggettuale, o egualmente di una tensione relazionale, la diagnosi di autismo dovrebbe essere valutata con estrema attenzione e adeguatamente confrontata con ipotesi diagnostiche differenziali. Soprattutto data la mutevolezza di scenario comportata dallo stadio evolutivo, si mostra questa la scelta più opportuna.

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    https://www.lescienze.it/news/2015/03/23/news/connessioni_corteccia_cerebrale_autismo-2536151/
  • Ecco come "cambia" il cervello dei bambini autistici
    https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/neuroscienze/ecco-come-cambia-il-cervello-dei-bambini-autistici1
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