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Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative

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Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative

L'articolo "Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative" parla di:

  • Interpretazione psicodinamica della reincarnazione
  • Ipnosi regressiva e terapie immaginative
  • Esempi di diversi archetipi
Psico-Pratika:
Numero 144 Anno 2018

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Articolo: 'Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative'

A cura di: Andrea Napolitano
    INDICE: Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative
  • 1. Introduzione
  • 2. Il mito di Er
  • 3. Il Buddhismo
  • 4. Un'interpretazione psicodinamica della reincarnazione
  • 5. Il Daimon
  • 6. L'ipnosi regressiva
  • 7. Le terapie immaginative
  • 8. L'immaginazione attiva
    • 8.1 Jung: "Sul rinascere"
    • 8.2 Il concetto di inconscio collettivo in Jung
  • 9. L'inconscio collettivo nell'ipnosi regressiva e nelle terapie immaginative: le NDE
  • 10. Gli archetipi
    • 10.1 I diversi archetipi
  • 11. Archetipi e complessi nell'ipnosi clinica e nelle terapie immaginative
    • 11.1 Un'Anima fra infanzia e sfruttamento: Alessandro
    • 11.2 Un Animus irato: Maddalena
    • 11.3 Una Madre amorevole: Fabiola
    • 11.4 Un Saggio giustiziere: Veronica
    • 11.5 Racconti dell'Ombra
    • 11.6 Un'Ombra nazista: Claudia
    • 11.7 Un Fanciullo martirizzato: Simonetta
    • 11.8 Un Fanciullo orientale: Emma
  • 12. Altre letture su HT
Introduzione

In passato tutte le grandi religioni hanno tentato di rispondere alle grandi domande circa il rapporto fra anima e corpo, la possibilità della reincarnazione, il senso della vita; oggi ci provano anche la scienza, con lo studio delle esperienze di pre-morte, e la psicologia, con l'ipnosi regressiva. Al di là della veridicità o meno delle loro risposte, l'aspetto straordinario è la convergenza delle stesse.

Le filosofie estremorientali - buddhismo e induismo - hanno parlato apertamente di reincarnazione in molte delle correnti di pensiero che le hanno contraddistinte. Poiché tali religioni sono geograficamente e culturalmente lontane dal pensiero occidentale, possiamo avvicinarle esaminando i miti dell'antica Grecia, più vicini alla nostra cultura, attingendo in particolare dal mito di Er, narrato da Platone nel X libro della Repubblica, i cui contenuti sono estremamente simili a quanto narrato, sull'aldilà, dalle religioni orientali.

Il mito di Er

Platone racconta che un soldato greco, Er, apparentemente morto in guerra, quand'era ormai disteso sul rogo funebre, tornò in vita e narrò quello che aveva visto nell'aldilà. Riferì che la sua anima, uscita dal corpo, si era trovata, assieme a molte altre, al cospetto di giudici che indirizzavano gli spiriti dei defunti verso luoghi di beatitudine o di penitenza. Le anime che non si erano macchiate di terribili efferatezze raggiungevano un luogo di luce pura, dove pendeva il fuso di Ananke, armonizzatrice dei destini dell'Universo e del singolo individuo. Attorno a lei stavano sedute le Moire, che accompagnavano le anime dei defunti a progettare la loro nuova incarnazione, scegliendo una determinata immagine o kleros che rappresentava e riassumeva la vita a venire, come farebbe quello che oggi definiremmo un trailer cinematografico. La scelta delle vite individuali rivelava la saggezza o la dissennatezza delle anime. La decisione era in ogni caso irreversibile: a ciascuna anima veniva, infatti, affiancato un Daimon, uno spirito custode, che la accompagnasse per tutta la vita dando adempimento al destino prescelto.

Il mito platonico di Er richiama esplicitamente antiche credenze proprie di diversi filoni teorici dell'induismo prima e del buddhismo poi: su tutte vi è l'idea della reincarnazione, secondo cui ogni anima si reincarna, dopo la morte, in una nuova vita condizionata dalla vita precedente andata dimenticata.

Il Buddhismo

Alcune tradizioni induiste affermano che l'anima individuale o jiva è spinta alla rinascita, dopo la morte fisica, dall'improvvisa visione dell'Unità Suprema, degli inviati del Re della morte Yama e del ricordo delle proprie azioni, giudicate da un tribunale di saggi.

Il buddhismo tibetano sostiene a sua volta che nel Bar-do Thödol - il periodo intercorrente fra due vite - l'anima, dopo essersi osservata fuori dal proprio corpo ormai morto, è sottoposta alla visione di bagliori luminosi, di demoni, di divinità benevole o arcigne che ne giudicano le azioni compiute nell'esistenza appena trascorsa, per poi sospingerla verso uno dei sei possibili mondi della rinascita: il mondo degli uomini, degli animali, degli spiriti famelici, dei demoni, delle divinità, degli inferi. Tutte queste visioni sono, però, solo proiezione degli attaccamenti e delle predisposizioni del defunto: è la sola anima del trapassato che, per le tendenze presenti in lui, pronuncia il suo giudizio assegnandosi la sua rinascita.

Il buddhismo teorizza, quindi, la sopravvivenza di un quid che, presente in ogni essere vivente, resiste alla morte per incarnarsi poi in un nuovo corpo e generare una nuova vita; questo quid è in ogni caso qualcosa di totalmente diverso dal "sé" (atman) perché destinato, nel corso del tempo, ad evolversi e mutare radicalmente, dato che ogni personalità che esso contribuisce a formare è qualcosa di impermanente e transitorio. Le diverse tradizioni buddhiste oscillano fra il ritenere questa essenza come un moto di volontà del defunto, come la sua sete di esistenza, come una componente o espressione dei suoi cinque skandha o "gruppi di attaccamento", come manifestazione del vinnana, coscienza universale non egoica, o come un elemento della coscienza individuale del trapassato: in questo caso è descritta come un corpo immateriale, comparabile allo jiva dell'induismo, al ba degli antichi egizi, all'ochema dei neoplatonici.

Un'interpretazione psicodinamica della reincarnazione
Archetipi di rinascita nell'ipnosi e nelle terapie immaginative

Anche chi non dovesse credere alla reincarnazione, immaginandola come un'ipotesi troppo vaga o spaventosa, può ammettere che il "millenario viaggio" narrato dal mito di Er sia interpretabile metaforicamente come la lettura del cammino che ogni essere umano compie non tanto dopo la morte, quanto all'alba della propria vita.
Ecco allora che il concetto platonico e indo-buddhista di reincarnazione - secondo cui ogni anima si reincarna, dopo la morte, in una nuova vita condizionata dalla vita precedente andata dimenticata - corrisponde al concetto freudiano per cui l'esistenza conscia di ogni individuo è indelebilmente segnata da quanto vissuto nei tempi remoti dell'infanzia, dunque da esperienze rimosse, di cui non si è più consapevoli. I traumi infantili vengono rimossi perché insopportabilmente spiacevoli, così come le vite precedenti vengono dimenticate in ragione della loro dolorosità: va ricordato a tal proposito il concetto buddhista di dukkha, termine sanscrito traducibile con "sofferenza", una sofferenza, secondo il buddhismo, pervasiva dell'intera esistenza umana.

Se la dimenticanza delle vite precedenti simboleggia il meccanismo della rimozione, le esistenze pregresse stesse - quali contenuto di tale dimenticanza - simbolizzano il contenuto traumatico della rimozione, quello che Freud ha chiamato "il primo tempo del trauma". I "primi tempi del trauma" sono consumati in un passato lontano e rimosso (in fondo, i nostri primissimi anni di vita non sono così lontani e confusi nella memoria da farci legittimamente dire di averli vissuti "una vita fa"?); e tuttavia irradiano i loro effetti nel presente, laddove il "secondo tempo del trauma", cioè un'esperienza anche solo vagamente simile al trauma originario, riattiva le angosce sperimentate nel passato.

Un'altra similitudine riguarda la legge del karma delle filosofie orientali e il concetto freudiano di "coazione a ripetere": in entrambi i casi, l'individuo andrà a cozzare perennemente contro le stesse situazioni problematiche finché non avrà risolto il conflitto interiore che è loro sotteso.

Il Daimon

Un'ultima similitudine riguarda il Daimon, lo spirito custode che affianca l'anima nel suo nuovo cammino terreno; analoghi spiriti custodi esistono anche nelle tradizioni indo-buddhiste, come testimoniano ampiamente i Canoni Buddhisti o il Libro tibetano dei morti.
Il Daimon è colui che porta nel presente gli effetti del passato, le conseguenze del karma delle vite precedenti dimenticate: è quell'alterità presente in noi che attualizza le conseguenze del rimosso, dei traumi sepolti e scordati; è quindi paragonabile a quello che Freud definisce "il primo nucleo dell'inconscio". Ma nel Daimon si può ravvisare anche quell'inconscio che Jung intendeva non solo come ricettacolo di traumi rimossi, ma anche come scrigno segreto, fonte creativa. Anche nel buddhismo si trova un concetto simile, per cui l'inconscio è avvicinabile a un "potenziale numinoso", celeste, ultraterreno, che precede il destino dell'incarnazione individuale.

Lo psicoanalista junghiano Hillman afferma che il Daimon è il guardiano della nostra "ghianda": la sua "teoria della ghianda" afferma che siamo tutti venuti al mondo con una "ghianda", appunto, ossia un'immagine che ci definisce, un senso di vocazione atavico che ci porta a diventare ciò che siamo, un'idea innata di noi stessi non diversa dalle sorti e dai modelli di vita che le Moire proponevano alle anime in attesa di rinascere; inoltre, anche Hillman ritiene che ognuno di noi sia dotato di un custode inconscio che, come i Daimones platonici, indirizza l'esistenza individuale secondo i binari che ciascuno ha stabilito per sé prima della nascita.

L'ipnosi regressiva

Hillman, esponente di punta della psicologia junghiana, teorizza che tutti nasciamo come portatori di un'immagine innata che si incarna nel corpo e nella vita, pur senza parlare mai apertamente di metempsicosi.
Un'altra voce nel complesso e polifonico coro delle psicologie considera la reincarnazione come una possibilità di indagine, intorno a cui articolare una psicoterapia. Si tratta della cosiddetta "ipnosi regressiva".
L'ipnosi, lungi dall'essere una pratica sciamanica o misterica, è un semplice stato di coscienza "alternativo", una condizione di mirata concentrazione e al contempo di profondo rilassamento, che può tradursi in uno stato di trance più o meno profondo nel quale è possibile accedere alla visualizzazione spontanea di memorie o immagini, che possono risalire sino alla prima infanzia, o andare ancora più indietro, permettendo di tornare alla vita intrauterina, o addirittura a ipotetiche vite precedenti. L'aggettivo "ipotetiche" vuole suggerire che per molti ipnoterapeuti non è importante - né è forse possibile - dare risposta al dilemma sulla verità fattuale o metaforica della trasmigrazione. Anche se le presunte esistenze pregresse fossero solo delle simbolizzazioni di esperienze infantili, ciò non ne muta il potenziale terapeutico. Quel che conta è, per il paziente, dare risposta alle difficoltà del presente trovando un senso che permetta di inserirle in un disegno esistenziale più ampio: non cambia nulla che si tratti di vite anteriori o, piuttosto, di vite interiori! Provengono comunque dall'interiorità dell'individuo, dalla sua psiche, da quella che una volta non si aveva paura di chiamare anima.

Le terapie immaginative

Se la psicologia ufficiale e accademica rifiuta di accogliere i presupposti dell'ipnosi regressiva, ben diversamente si comporta con le terapie immaginative, che rientrano fra le tecniche psicoterapeutiche generalmente accettate.
Si può definire "Psicoterapia dell'immagine" ogni metodo psicoterapeutico in cui, mentre il soggetto è rilassato, gli appaiono immagini mentali che tendono ad articolarsi secondo uno svolgimento drammatico.

Fra i padri fondatori delle psicoterapie immaginative ricordiamo Desoille, con la tecnica del "sogno da svegli guidato", Virel, con la "décentration", e in Italia Balzarini, con l'Analisi Immaginativa. Sono tutte tecniche che rivelano il mondo immaginativo del paziente, autentico teatro in cui entrano in scena le caratteristiche delle persona, la sua storia più remota, i conflitti e le aspirazioni, l'Es, l'Io, il SuperIo. Queste figure mettono in scena un autentico "onirodramma", con un inizio che propone il raggiungimento di uno scopo, uno svolgimento spesso angosciante e una conclusione. L'emergere delle immagini può consentire di costruire storie intere a partire anche solo da un'apparentemente banale sensazione corporea: ecco quindi che sentire una gamba rigida "come legno" può evocare l'immagine di un bucaniere; la prima cosa da fare è, allora, collocare l'Io corporeo: come si è vestiti? Quanti anni si hanno? In che posizione si è? Dove si trova quel bucaniere? In una taverna, in una nave? Dove ha perso quella gamba?
Le storie che emergono non sono affatto diverse da quelle vissute in ipnosi regressiva: l'unica differenza è che nelle psicoterapie immaginative non si ha la pretesa di definire "vite precedenti" gli onirodrammi vissuti dai pazienti.

L'immaginazione attiva

Anche Jung utilizzava un approccio terapeutico simile. Si tratta della cosiddetta "immaginazione attiva", un metodo di introspezione che consiste nell'osservare il flusso di immagini interiori. In tali condizioni si producono serie lunghe e spesso drammatiche di fantasie, che, sostiene Jung, producono materiale ricco di immagini archetipiche, ponendoci in condizione di scoprire l'archetipo. Sono convinto che altrettanto possano fare le terapie immaginative e l'ipnosi regressiva, indipendentemente dalla veridicità o meno delle ipotetiche vite precedenti.

Jung: "Sul rinascere"

Jung non ha mai sostenuto apertamente la reincarnazione, ma ha più volte scritto su temi quali l'immortalità dell'anima e la metempsicosi.

Secondo lo psicologo svizzero, credere nell'immortalità dell'anima può rivelarsi fondamentale anche solo per motivi meramente utilitaristici, in quanto (Jung, 1930/1931) "una vita orientata verso uno scopo è migliore, più ricca, più seria di una vita senza scopo. Perciò trovo molto ragionevoli tutte quelle religioni che hanno una meta ultraterrena, non foss'altro che dal punto di vista dell'igiene psichica".
Ma Jung va ben oltre i motivi utilitaristici, aprendo alla visione filosofica dell'immortalità dell'anima e auspicando che si possa sensatamente "prendere in esame la possibilità di una «psicologia con anima», cioè di una dottrina della psiche fondata sul presupposto d'uno spirito autonomo, giacché l'ipotesi dello spirito non è per nulla più fantastica di quella della materia".

Jung ha, inoltre, sottolineato (1940/1950) come il tema dell'eternità dell'anima e del suo rinascere abbia una valenza archetipica, affondi cioè le proprie radici nell'inconscio collettivo dell'umanità.

Il concetto di inconscio collettivo in Jung

Vale allora la pena di spendere qualche parola in più sul concetto, fondamentale in Jung, di "inconscio collettivo".
Il padre della psicologia analitica sostiene (1934/1954) che, al di sotto dello strato superficiale e personale dell'inconscio, si trova "uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato", "non è di natura individuale, ma universale". Si tratta di un "sistema psichico di natura collettiva, i cui contenuti" - gli archetipi - "non appartengono unicamente a un individuo ma all'umanità intera". Questo inconscio collettivo è "il risultato dell'evoluzione di un'infinita serie di antenati".

I legami fra la "massa psichica" dell'inconscio collettivo e il tema archetipico della reincarnazione sono evidenti, ma, qualora non se ne cogliesse il nesso, à lo stesso Jung a esplicitarlo: accade quando, ne Il commento psicologico al Libro tibetano dei morti afferma che è possibile comprendere il concetto di karma come ereditarietè psichica (Jung, 1935/1953); quando sostiene che "il mondo degli dèi e degli spiriti «non è che» l'inconscio collettivo in me"; e soprattutto quando scrive che nell'inconscio collettivo vivono "lo spirito dei nostri ignoti antenati, il loro modo di pensare e sentire, il loro modo di sperimentare la vita e il mondo, gli uomini e gli dèi. L'esistenza di questi strati arcaici costituisce la fonte della credenza nella reincarnazione e nel ricordo di «vite anteriori»" (Jung, 1939).
Nell'inconscio collettivo, l'uomo ha "vissuto un numero infinito di volte la vita del singolo, della stirpe, del popolo" (Jung, 1931) e possiede, "in un sentimento intimo e vivissimo, il ritmo del divenire, della nascita, della morte".

È certamente lecito dubitare che l'ipnosi regressiva garantisca il ritorno a vite passate vissute dal singolo individuo; ma si perde forse un'importante occasione terapeutica nel non considerare l'ipotesi che essa possa consentire l'accesso all'inconscio collettivo e ai miliardi di vite vissute dall'uomo collettivo, le cui tracce archetipiche sono contenute in ciascuno di noi. E il carattere archetipico dei ricordi o delle simbolizzazioni che emergono dall'ipnosi regressiva è ben esemplificato dalla similitudine fra le descrizione intraipnotiche delle morti che sopravvengono al termine delle ipotetiche vite precedenti, da una parte, e le esperienze di pre-morte dall'altra.

L'inconscio collettivo nell'ipnosi regressiva e nelle terapie immaginative: le NDE

Le narrazioni riportate da chi è sopravvissuto a una NDE ("near death experience" o esperienza di pre-morte) concordano sorprendentemente con i resoconti dei soggetti che in ipnosi descrivono la loro morte al termine di un'ipotetica vita precedente, ma anche con i racconti di chi immagina esperienze simili nel corso di una terapia immaginativa.

Sulle NDE esiste ormai una corposa letteratura scientifica: numerosissime persone, trasversali per cultura, etnia, età, genere, religione, dopo aver sfiorato il decesso spesso al punto di essere state dichiarate clinicamente morte, hanno riportato una fenomenologia simile, ben descritta dagli studi di Moody e di Facco: chi vive una NDE sente di muoversi lungo una galleria buia, al cui termine percepisce di essere uscito dal proprio corpo, che vede in lontananza come se fosse solo uno spettatore. Avverte di avere ancora un "corpo", ma immateriale, invisibile e senza peso, al pari di quello descritto da diverse tradizioni buddhiste e in particolare dal Libro tibetano dei morti.
Le esperienze di pre-morte concordano con tali tradizioni anche per la condivisa sensazione, riferita dai "morenti", di essere chiamati a dare un bilancio della propria vita, di cui si rivedono i momenti fondamentali.

Nelle NDE vengono poi quasi inesorabilmente riportati dialoghi toccanti e commoventi con i propri cari defunti o con esseri luminosi traboccanti amore, spesso identificati in figure rappresentative delle religioni nelle quali si è creduto. È come se il morente si sentisse rivolgere, da esseri spiritualmente evoluti, una domanda non verbale che potrebbe suonare come un: "Ne è valsa la pena? Ora che sai quello che sai, la vita che hai condotto ti sembra degna di esser stata vissuta?"; la domanda vibra di un amore e un'accettazione totali.
Quando gli incontri avvengono con parenti già da tempo defunti con i quali c'erano legami affettivi profondi, la sensazione del morente è che essi gli si siano palesati per guidarlo, per dargli il benvenuto. A volte è stato riferito che i soggetti, al momento dell'esperienza, ignoravano che la persona incontrata fosse deceduta, e di esserne venuti a conoscenza per la prima volta proprio durante la NDE. Quando gli incontri dei morenti si allargano al contatto dialogico ed emotivo con "esseri di luce", ciò che maggiormente permea l'esperienza è il senso di amore profondo e incondizionato che traspare da tali entità. Anche Jung (1952) ha riportato con parole analoghe l'esperienza - che solo oggi definiremmo di pre-morte - di una paziente poi "tornata in vita".

Ovviamente, chi ha narrato una NDE, è tornato alla vita per farlo: i più asseriscono che non avrebbero mai voluto lasciare la presenza della luce e degli esseri luminosi, ma che, giunti di fronte a un confine che, qualora oltrepassato, avrebbe impedito il ritorno alla vita ordinaria (Facco, 2010), si sono sentiti in dovere di tornare, ad esempio per allevare bambini piccoli, per accudire familiari malati, per portare a termine compiti importanti da svolgere in uno spirito di generosità. Una mia paziente, un medico fortemente motivata allo svolgimento del proprio lavoro, ha raccontato di essersi "vista dall'esterno; vedevo il mio corpo, volteggiavo, mi guardavo da sopra. C'era tanta luce. Mi vedevo e mi chiedevo perché mi stessi guardando. Poi ho sentito un forte desiderio di tornare al corpo, come se non potessi lasciarlo, perché grazie a lui dovevo ancora salvare molte vite".

I diversi resoconti di trance sono straordinariamente simili ai vissuti descritti nelle NDE. Queste diverse testimonianze, pur ben lungi dal fornire prova alcuna della sopravvivenza dell'anima o della metempsicosi, possono tuttavia dimostrare l'esistenza di una visione archetipica condivisa della dimensione dell'oltre-vita, comune sia a chi ha accumulato conoscenze su tale tema, sia a chi ne è completamente privo, come accade spesso a chi si sottopone a "semplici" terapie immaginative.

Gli archetipi

Possiamo ipotizzare, quindi, che l'ipnosi regressiva e le terapie immaginative possano aprire la strada, se non verso vite precedenti meramente ipotetiche, almeno verso l'inconscio collettivo e verso i contenuti dello stesso, gli "archetipi".
Gli archetipi sono definiti da Jung (1936) come forme psichiche "presenti sempre e dovunque", "immagini universali presenti fin da tempi remoti". Gli archetipi sono rintracciabili in tutti i tempi e in tutti i paesi, principalmente nei miti, ma anche "nelle fantasie, nelle visioni, nelle illusioni, nei sogni" (Jung, 1945/1948).
Gli archetipi dirigono ogni attività immaginativa, sia quella a fondamento delle mitologie collettive, sia quella all'origine delle fantasie individuali. In entrambi i casi, vi sono «situazioni» e «figure» che ricorrono più spesso di altre.

Un esempio di situazioni archetipiche può essere costituito proprio dalle visioni del post-mortem precedentemente riportate: esse sono, infatti, estremamente simili, nel passato e nel presente, quindi arcaiche e tipiche; sono rintracciabili sia nelle esperienze di pre-morte, sia nelle mitologie e nelle religioni, come attestato dal mito platonico di Er e dal Libro tibetano dei morti, sia dalle fantasie o esperienze individuali di immaginazione o di trance.

E per quanto riguarda le "figure" archetipiche? Le principali sono l'Ombra, il Vecchio, il Fanciullo e la Fanciulla, la Madre, l'Anima nell'uomo e l'Animus nella donna. Queste figure costituiscono i principali archetipi che popolano l'inconscio collettivo. Poiché tali figure si manifestano, oltre che nei miti e nelle fiabe, anche "nelle fantasie, nelle visioni, nelle idee illusorie, nei sogni individuali", è più che lecito pensare che possano altresì rivelarsi tramite le visualizzazioni delle terapie immaginative e dell'ipnosi regressiva.
Cercheremo, quindi, ora di capire come queste tecniche psicoterapeutiche possano permettere l'espressione degli archetipi, svelando al contempo gli aspetti complessuali che possono essere la declinazione degli archetipi collettivi nell'inconscio individuale.

I diversi archetipi

L'Anima: è quel "lato della natura dell'uomo" che è "caratterizzato dalla femminilità", quell'"inconscia figura femminile" posseduta da ogni uomo, ma della quale egli "in genere non è minimamente consapevole".

L'Animus: è l'archetipo maschile che vive nell'inconscio della donna. Le differenze individuali in cui si esprime l'archetipo collettivo nelle diverse donne possono essere considerate figlie delle prime relazioni che ogni singola donna ha vissuto, dall'infanzia in poi, con il maschile e il paterno. Il maschile può di volta in volta esprimersi con valenze persecutorie o salvifiche che prendono forme chiaramente identificabili nelle terapie immaginative o nelle ipnosi.

La Madre: è l'archetipo che rappresenta la magica autorità del femminile, la sua saggezza ed elevatezza spirituale, la sua benevolenza e tolleranza, ma anche la sua infera oscurità, il suo impeto divoratore. Questo archetipo si snoda infatti fra i due poli contrapposti della madre amorevole e della madre terrificante.
Nelle vignette cliniche ci imbatteremo soprattutto nella madre salvifica, ma ci accorgeremo anche di come il voler salvare ad ogni costo gli altri possa condurre al rischio dell'autodistruzione o alla madre terrifica.

Il Vecchio Saggio: è l'archetipo dello spirito e può presentarsi come dispensatore di intelligenza, decisione e pianificazione. Rappresenta il significato nascosto nel caos della vita; è colui che illumina e guida, come gli stregoni delle società primitive. Anche nelle visualizzazioni o nelle trance è evidente il suo ruolo di elargitore di sapienza.

L'Ombra: personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce o non desidera vedere di sé. È la portatrice di aspetti oscuri e di affetti negativi troppo spesso e troppo semplicisticamente proiettati all'esterno. Tuttavia, può essere anche la depositaria di contenuti potenzialmente positivi e importanti, nascosti sotto un involucro di poco valore.

Il Puer: il fanciullo rappresenta l'aspetto infantile dell'anima, di cui è anche l'avvenire in potenza. Può palesarsi come bambino minacciato, abbandonato, addirittura sacrificato, ma ha sempre la possibilità di risvegliarsi a nuova vita e nuova potenza, poiché in lui può esprimersi l'aspetto del dio fanciullo o del giovane eroe. L'archetipo del Puer personifica, quindi, forze vitali al di là dei limiti della coscienza, capaci di imprimere un formidabile impulso all'autorealizzazione, che può concretizzarsi nell'affermazione di sé o nel martirio eroico.

Archetipi e complessi nell'ipnosi clinica e nelle terapie immaginative

Diversi casi clinici testimoniano come gli archetipi manifestino se stessi durante le visualizzazioni dell'ipnosi regressiva o delle psicoterapie immaginative. Le visualizzazioni esprimono aspetti archetipici in modo coerente, indipendentemente dalla tecnica usata, ipnotica o immaginativa; queste terapie hanno la comune capacità di esprimere il mondo interiore dell'inconscio individuale e collettivo.

Un'Anima fra infanzia e sfruttamento: Alessandro

Alessandro era un giovane uomo che aveva problemi nel rapportarsi con il femminile e non riusciva a portare avanti seriamente alcuna relazione. Durante una seduta di terapia immaginativa, ascoltando i battiti del proprio cuore, aveva lasciato emergere un'emozione di tristezza che aveva preso la forma di un'immagine: "Una bambina piccola, di quattro anni. Ho la faccia sporca, resa scura dal fumo e dalla terra; i miei capelli neri sembrano stopposi... come mai lavati! È sera inoltrata e vedo molta gente intorno a me, tutti riuniti intorno a un focolare. Mi pare di essere in una tribù mongola. Siamo nomadi, ci spostiamo continuamente con i nostri animali e dormiamo all'interno di grandi tende. Vedo il colore rosso dei nostri abiti e dei nostri cappelli di lana e di stoffa grezza, che ci riparano dal freddo. Io sto vicina a una donna, è mia madre: è corpulenta e sudaticcia mentre prepara qualcosa da mangiare ed io sto così bene accoccolata vicino a lei... Sento di averne tanto bisogno!".
Alessandro fu assalito da un'improvvisa angoscia: "Provo un senso di tragedia imminente, di una separazione incombente. Forse la nostra tribù viene assalita, forse è per via dei rigori dell'inverno: quella bambina muore, o viene strappata dalla mamma, o sua madre viene uccisa. Provo nostalgia per quella madre".

In una successiva seduta, Alessandro, focalizzandosi sull'ascolto di un intorpidimento alle braccia, vide formarsi l'immagine di una giovane donna "vestita con un abito scuro, sbrindellato, molto corto. Dev'essere una prostituta, e non di alto bordo! Non sembra nemmeno pulita! Il periodo sembra essere quello medievale e il nome Gertrude".
La giovane donna vendeva la sua femminilità per sopravvivere. Si dissociava dal suo corpo, lasciando che i clienti ne facessero ciò che volevano, senza mai abbracciarli, lasciando che le proprie braccia pendessero come pesi morti, indolenziti dal medesimo torpore che Alessandro aveva percepito nelle sue stesse braccia. Il paziente lo riportò con lo stesso distacco che le persone traumatizzate spesso palesano nel vivere il proprio corpo, essendo state costrette a dissociarsene.

Queste due visualizzazioni permisero ad Alessandro di rendersi conto che anche nel suo presente il suo rapporto col femminile ondeggiava fra due opposte polarità ben simboleggiabili dalle figure della bambina mongola e di Gertrude: nelle donne cercava, cioè, alternativamente o una madre accudente che gli permettesse di abbandonare qualunque responsabilità adulta e di regredire a uno stato di dipendenza infantile, o una donna-oggetto a cui chiedere prestazioni meramente sessuali; per legarsi a donne che di volta in volta somigliassero a queste figure d'Anima, Alessandro era peraltro ben disposto a mercificare anche se stesso, non diversamente da quanto faceva Gertrude.
Il prendere atto di questa ambivalenza interna permise all'uomo di cominciare a cercare un rapporto più equilibrato con il femminile.

Un Animus irato: Maddalena

Maddalena era una signora che denunciava problemi di rapporto con il maschile: si sentiva in conflitto fra il detestare un maschile che spesso l'aveva tradita e vilipesa, e il prendersi cura di quello stesso maschile. Questa necessità era verosimilmente legata al pregresso bisogno di curare un padre violento, morto dopo una lunga malattia. Maddalena si era legata nella vita a uomini violenti e maltrattanti come il padre.

Aveva visto se stessa come un uomo greco il cui nome pronunciava come "Menis". Vedeva un anello indossato all'anulare: "È una forma di potere ereditato da mio padre, ma io non lo volevo. Me l'ha dato sul suo letto di morte, un letto lussuoso, degno di un uomo potente quale lui era! Aveva tanti servi, che ora sono a mia disposizione. Ma mi grava la responsabilità dell'ingiustizia, il non aver portato avanti le mie idee: rendere liberi tutti gli schiavi, coltivare amore e compassione. Le convenzioni sociali me l'hanno impedito. Sento tanta rabbia...".
Curiosamente, la parola greca "mhnis" (μηνις) indica una rabbia di origine divina: era l'"ira funesta" che, nell'Iliade, animava Achille! Maddalena non aveva mai studiato greco, ma, attraverso i secoli, se non proprio l'eco di una vita precedente, sicuramente almeno la forza di un archetipo sussurrava il termine più coerente con lo stato d'animo della donna.

Maddalena rievocò come "quell'anello del potere era destinato a mio fratello maggiore, addestrato a un ruolo di comando, ma morto in battaglia". Il secondogenito, cioè lo stesso Menis, sapeva di non essere adatto al dominio. Il padre morente gli aveva detto sprezzante: "Spero tu faccia quello che è giusto, quello che hai visto fare da me!".
In realtà, Menis dal padre aveva visto solo perpetrare ingiustizie, quali abusare delle serve sotto agli occhi inorriditi del figlio, allora 15enne, che vedeva il dolore delle povere donne e si diceva "Io mai farò così!". Il fatto più grave era avvenuto "dopo la morte di mio fratello maggiore, durante una cena: un servo era stato scoperto nel tentativo di rubare una mela". Il padre aveva ordinato a Menis: "tagliagli la mano, di fronte a tutti i commensali, come farebbe tuo fratello se fosse vivo!". Di fronte alle esitazioni del giovane, il padre lo aveva minacciato: "O la sua mano o la tua!". E così "davanti a tutti, ZAC! Gliela taglio!", aveva urlato Maddalena in lacrime; "E mio padre mi obbliga a esibire la mano mozzata, come un trofeo. Sento un'enorme rabbia...".
Qualche anno dopo la morte del padre, Menis si era reso conto che il potere lasciatogli dal genitore era solo di facciata: il potere reale era nelle mani di un manipolo di uomini di cui il padre si fidava. Menis aveva tentato di riprendersi la sua vita, fuggendo nottetempo su di una barca con la sua amata: "è una serva, la più bella di tutto il palazzo". Non avevano fatto, però, i conti con gli sgherri rimasti fedeli al padre di Menis: costoro erano arrivati di corsa; la ragazza era stata scaraventata a terra e violentata da due guardie, mentre un terzo energumeno teneva legate le mani di Menis.

Dopo questa drammatica sequenza di immagini, Maddalena ha cominciato a sentire di non avere più le mani legate: ha capito di poter usare la sua giusta ira, la sua furiosa voglia di giustizia, per difendere i più deboli, il femminile e se stessa.

Una Madre amorevole: Fabiola

Fabiola si struggeva per un'ipotetica difficoltà di rapporto con il figlio di 6 anni, difficoltà per la quale accusava fin troppo severamente se stessa: "Ho reazioni istintive di rabbia che controllo ma che mi dispiacciono", reazioni che in realtà non l'avevano mai portata a fare assolutamente nulla di male al bambino. Fabiola aveva, però, vissuto un'infanzia disagiata con dei genitori violenti e trascuranti, dei quali temeva di reiterare i comportamenti censurabili.

In un profondo rilassamento, si era vista come una donna anziana di nome Angela, che lavorava ai ferri. "Sono seduta in una casupola di montagna con un focolare. Con me c'è una bambina: è mia nipote. È appena entrata col nonno, mio marito. Ci sorridiamo, lui fuma la pipa, la bimba gioca, è in vacanza. La mamma della bambina è mia figlia. I rapporti fra noi sono ottimi ed io sono stata felice, quattro anni fa, di avere una nipotina". "Io e mio marito ci eravamo conosciuti tagliando il fieno: lui era premuroso e affettuoso, mi aiutava a legare il fieno. Ci eravamo sposati in chiesa: era bella, piena di fiori e anch'io ero una bella sposa! Anche mio marito era bello e io ero felice di sposarlo. Presto abbiamo avuto una bambina: diventare madre è stata la gioia più grande della mia vita! È stata una vita semplice, modesta, ma esser madre mi ha sempre ripagato di tutto!". Fabiola affermò che, dall'esperienza vissuta come Angela, "ho imparato l'amore". Non aveva più bisogno di coltivare la paura di essere una madre anaffettiva.

Un Saggio giustiziere: Veronica

Veronica era una ragazza che, da bambina, era stata oggetto di violenza pedofila. Poco seguita dai genitori, si era sentita, anche negli anni successivi, sporca, colpevole. Nel presente non riusciva a legarsi affettivamente a nessuno.

Si era visualizzata come "un monaco di mezza età. Mi trovo nella biblioteca del monastero, dove cerco notizie su una storia di cronaca, una giovane donna che è sparita. Sto facendo questa ricerca per fare un favore alla madre della ragazza. Temo che il monastero abbia una qualche responsabilità: sospetto uno scandalo fra questa ragazza e un frate. La madre vuole vendicarsi e pugnalarlo e mi chiede informazioni sui suoi movimenti. Io cerco di farla ragionare, ma invano: qualche giorno dopo il frate viene ritrovato morto".
"Anni dopo, sono in un giardino dello stesso monastero. Scrivo sul mio diario personale quella vicenda di tanto tempo fa. Scrivo per rendere giustizia, perché non si ripeta più: nel monastero, infatti, c'è già qualche altro frate che inganna le ragazze, minacciandole che andranno all'inferno se non si prestano a soddisfare le loro bramosie sessuali. È ora che io denunci le loro malefatte, che questo scempio abbia fine!".

Cinque anni dopo, "sono a letto, gravemente malato e anziano. Però sento un delizioso profumo di rose! Sto bene! La Madonna mi sta accogliendo! Mi gira la testa, ma è piacevole! Sono felice! Maria mi saluta e mi prende le mani. Mi fa sentire bene e mi trasmette pace. Mi fa capire che, grazie al mio scritto di denuncia, le scorribande sessuali dei frati si sono placate. La Madonna mi ringrazia per aver scritto quelle pagine, che hanno portato giustizia e pulizia".

In breve tempo, Veronica avrebbe portato giustizia e pulizia anche nella sua vita, riuscendo ad affermarsi in campo professionale e a vivere finalmente una storia d'amore luminosa e coinvolgente.

Racconti dell'Ombra

L'Ombra personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce o non desidera vedere di sé. Tuttavia è anche la depositaria di contenuti potenzialmente positivi e importanti, nascosti sotto un involucro di poco valore.

A tal proposito, mi sovviene il ricordo di un paziente ipocondriaco, timoroso che ogni banale malessere fisico fosse il sintomo di una patologia ben più grave; costui si visualizzò come un soldato coraggioso fin oltre il limite dell'incoscienza (cioè esattamente l'opposto di come lui era nella vita cosciente); in trance, narrò di una battaglia più facile del previsto in cui non aveva subìto neppure un graffio.
Poche settimane dopo, quando gli chiesi come andassero le sue paure ipocondriache, mi rispose: "Paure ipocondriache? Ma lo sa che non ricordavo nemmeno più che ero venuto da lei per questo motivo?!".

Generalmente, però, i lati d'ombra non sono così gradevoli da incontrare: nessuno ha particolare piacere di incontrare il sadico, il carnefice, addirittura il potenziale assassino che si porta dentro! Eppure, nelle terapie immaginative e in ipnosi regressiva questi lati emergono senza alcuna reticenza, rivelando, anzi, nel tempo un'evidente utilità terapeutica.

Un'Ombra nazista: Claudia

Spesso l'archetipo dell'Ombra si manifesta in persone dolorosamente consapevoli delle violenze familiari inferte loro nel passato o nel presente. Claudia era, invece, una professionista brillante e di successo, senza nessuna famiglia maltrattante alle spalle che ne avesse rovinato l'infanzia! Il suo unico problema era che, benché fosse avvenente e benestante, non era mai riuscita, in tutta la sua vita, ad avere un fidanzato. Temeva che non la aiutasse il fatto di odiare il rituale di farsi la doccia, ma si trattava sicuramente di una sua paura, priva di alcun riscontro oggettivo.

In una regressione Claudia si era identificata in un soldato tedesco, dagli stivali neri e l'uniforme scura. "Marcio in un campo di prigionia sul quale campeggia la bandiera con la svastica". Ricordava un'infanzia vissuta in una casa ricca ma fredda e vuota: "I miei genitori sono sempre assenti, ci sono solo una cameriera gelida e la mia sorellina; lei fa giochi da femmina, io gioco con i miei amici, con i fucili!". A quel ragazzino era stato insegnato a giocare alla guerra fino a quando si era arruolato davvero! "Per la verità non ero più convinto di voler fare quel gioco anche da adulto, ma ormai tutti i miei amici si erano già arruolati. Cos'altro potevo fare?!".
Seppur non convinto, il soldato presto si adattò alla vita del campo di sterminio: "Entro con tre commilitoni in una baracca dove sono radunate delle prigioniere, che vengono spogliate e sottoposte al taglio dei capelli. Di solito ci pensano le sorveglianti donne, ma oggi vogliamo divertirci noi quattro! Ci saranno cinquanta deportate. Vengono fatte sedere, quattro alla volta, su quattro sgabelli dove vengono rasate. Le prossime quattro che si siedono le rasiamo noi! I miei compagni ridono e io li imito. Ora c'è una donna anziana, con lunghi capelli grigi. Il soldato vicino a me, per divertirsi, le rasa solo metà cranio. Poi la fa alzare e sfilare, come se fosse una modella! Ridiamo! Il mio commilitone che le ha sforbiciato i capelli, obbliga le prigioniere a ridere e ad applaudire".
Claudia scoppiò in lacrime, per quel comportamento così lontano dal suo presente. Non la feci proseguire con ricordi così dolorosi, ma la inviai alla fine di quell'esistenza, dove poté guardare retrospettivamente a quella vita: "Sono stato un vigliacco. Non ho avuto pietà né compassione e neppure il coraggio di fare delle scelte. È questo che voglio imparare ora: la pietà, la compassione, il coraggio di scegliere. Chiedo perdono a me stessa, al divino, a chi ha sofferto in quel lager".

Quell'ipotetica vita da nazista in un campo di concentramento poteva dare una lettura simbolica delle difficoltà di Claudia con il maschile, nonché con le docce, famigerati luoghi di morte nei lager. Le sorprese, però, non erano finite!

In un'altra seduta di ipnosi, la donna si rivide, apparentemente, nello stesso luogo di morte: "Sono ancora nel dormitorio femminile, vedo i letti a castello delle deportate. Però, che strano... Non sono il soldato: sono io, Claudia, ed ho 10 anni! È la mia infanzia e mi trovo nella colonia estiva in Toscana con tanti altri bambini". Non era certo un caso che le camerate piene di letti a castello del dormitorio femminile fossero così simili a quelle dei lager: anche i supplizi stavano per cominciare e stavolta Claudia non li avrebbe più vissuti da carnefice, ma da vittima: "Mario, un ragazzo di 13 o 14 anni in colonia con me, mi chiama; dice che vuole farmi vedere una tana di volpi. Mi attira così in un boschetto: da dietro gli alberi sbucano altri due ragazzi; in tre mi sono addosso, mi palpeggiano, mi infilano le mani dappertutto! Urlo, piango, riesco a correre dagli educatori, che però non mi ascoltano. Telefono a mia madre, ma nemmeno lei mi ascolta veramente e minimizza l'accaduto. Sono disperata, mi fa schifo il mio corpo, non voglio che nessuno più lo veda o lo tocchi!".
Fino al termine del campeggio, Claudia non si sarebbe lavata più, rifiutando di farsi la doccia con le altre bambine (la doccia, che nei lager era elemento di morte, ricompariva qui come elemento di umiliazione), e mantenendo per anni la ritrosia nei confronti delle docce, a cui si sarebbe sottoposta solo obbligandosi e disciplinandosi!

Questo episodio era stato completamente rimosso da Claudia che, a ipnosi terminata, avrebbe ammesso: "È un avvenimento reale, è sempre stato in un angolo della mia mente! Come avevo fatto a scordarlo?!". Per recuperare quella memoria, aveva dovuto compiere un giro tortuoso che passasse per violenze naziste (reali o immaginarie) più antiche, ma correlate all'esperienza infantile.
Claudia finalmente poté smettere di frapporre distanza fra sé e un maschile prevaricante. Ora era libera di vivere in pienezza una vita affettiva e relazionale soddisfacente.

Un Fanciullo martirizzato: Simonetta

Abbiamo chiuso il paragrafo riservato ai "racconti dell'Ombra" riportando un caso clinico in cui la figura archetipica si muoveva nello scenario di un campo di sterminio nazista.
È incredibile quanto numerosi siano i casi di ipnosi regressiva o di terapie immaginative in cui le immagini siano ambientate nel periodo storico della Shoah. L'Olocausto, nel breve spazio di una settantina d'anni, si è imposto nell'immaginario e nella memoria collettivi come un ossimorico neo-archetipo. Il dolore deflagrato in seguito allo stermino degli ebrei (e non solo) nel periodo nazista si è impresso con una violenza incancellabile nell'inconscio dell'umanità, dando forma a incubi e visualizzazioni che sono rapidamente divenute il paradigma della cieca violenza e della cannibalesca prevaricazione dell'uomo sull'uomo. La vicenda neo-archetipica della persecuzione degli ebrei ha spesso assunto, nelle visualizzazioni, la forma di fanciulli martirizzati.

Simonetta, una donna sottoposta nel suo passato infantile e nel suo presente a avvenimenti dolorosi, aveva rivissuto le ultime ore di vita di Joseph, un ragazzino ebreo che era stato fatto marciare con altri compagni di classe verso il treno che li avrebbe condotti ai campi di sterminio. La lunga marcia era stata presentata ai bambini come un gioco, come il percorso verso una festa: erano state le maestre a mentire, ben sapendo quale fine sarebbe toccata ai bambini e a loro stesse. Joseph e gli altri piccoli ebrei camminavano in mezzo alla città, osservati dai coetanei "ariani" che andavano in altre direzioni e dagli adulti indifferenti o sprezzanti o commossi. Joseph avrebbe voluto aiutare una bambina molto piccola, che faticava a marciare, ma non poteva: lui stesso camminava male, con una stampella, perché aveva una gamba più corta dell'altra. Così, mentre la marcia si prolungava, snodandosi inaspettatamente nelle campagne, in mezzo a soldati armati che mantenevano l'ordine, con in lontananza il treno ad attendere sui binari, Joseph cominciava a sentirsi stanco. Non ce la faceva più, inciampava, cadeva con la faccia in una pozzanghera. Gli altri bambini lo calpestavano, perché non ci si poteva fermare. Joseph riusciva a spostarsi un po', ma aveva freddo, era bagnato e sporco di fango, e ormai stava facendosi buio. Alcuni soldati si divertivano a prenderlo a calci fino a farlo cadere in una zona sottostante. Il piccolo era ferito, aveva le ossa rotte. La notte gelida stava ormai calando.
Joseph non sarebbe arrivato vivo all'alba: alcune contadine, il giorno dopo, avrebbero pianto per lui e per il suo corpicino già aggredito dalla voracità degli animali. Dall'alto, Joseph si sentiva in colpa per non essere riuscito a fare come gli altri, ma anche per la loro sopravvivenza straziante, il loro essere trattati come oggetti, come sassi, e talvolta tumulati sotto cumuli di pietre. Solo alla fine Joseph avrebbe accettato che non c'era niente per cui essere perdonato. Era stato soltanto un bambino sacrificato dalla crudeltà degli uomini.

Anche Simonetta avrebbe potuto liberarsi degli ingiustificati sensi di colpa legati alle sofferte vicende del suo presente. Quanto a Joseph, anche se la sua è una storia di martirio, mi auguro che il solo poterlo qui ricordare contribuisca a dargli un senso e una rinascita. Chissà, però, quanti Joseph hanno attraversato velocemente e tormentosamente lo scenario della Storia, lasciandolo come precoci vittime inermi!

Un Fanciullo orientale: Emma

Fortunatamente non tutte le figure interne di Puer sono martirizzate. Alcune richiamano l'attenzione sulla forse dolorosa ma certo gratificante ricerca, per dirla in termini junghiani, della propria individuazione: simboleggiano il viaggio del Fanciullo mitico alla scoperta di Sé.

L'ultimo Puer di cui sarà esposto il caso è stato visualizzato da Emma, una giovane donna in conflitto col proprio corpo che sentiva "come pietrificato" e di cui non avvertiva sensazioni e bisogni. Ad occhi chiusi, si era vista come "un bambino accovacciato sui talloni. Vesto un kimono blu notte. Mi chiamo Lyu, ho 5 anni e seguo un addestramento in un monastero Zen. Vedo i maestri che abitano nel monastero. Alcuni insegnano la meditazione, altri una sorta di tai-chi, altri ancora insegnano una filosofia incentrata sul rispetto. E poi c'è il maestro che insegna la disciplina che mi piace di più, cioè come si creano, si curano e si mantengono i giardini Zen".
"Ogni giovane apprendista ha un suo giardino personale, che deve coltivare a propria immagine. Il maestro, senza mai insegnare o imporre nulla, semplicemente ci guarda. Dovrebbe richiamare l'attenzione di chi non cura il proprio giardino, non ne raccoglie le foglie o i legnetti caduti o ciò che il vento vi deposita, ma ciascuno di noi bambini (siamo una decina scarsa) è talmente affascinato dal proprio giardino e orgoglioso di esserne responsabile, che il maestro non ha mai bisogno di richiamare nessuno".
"Per molti anni il mio giardino è sempre rimasto uguale a se stesso. Come ci spiega il maestro, il giardino, in teoria, dovrebbe mutare forma in modo che la sua composizione rispecchi sempre la relazione di ciascuno di noi con tutto ciò che è 'altro da sé', relazione che ci si aspetta sia soggetta alle trasformazioni dettate dal metabolizzare le esperienze che la vita ci offre. Il mio giardino, invece, è rimasto sempre immutato. L'equilibrio della distesa di sabbia perfettamente livellata composizione mi ha sempre dato una grande serenità. La necessità di modificare il giardino, avrebbe significato l'ammissione che in qualche modo avevo tradito me stesso".

Eppure, un giorno, Lyu aveva deciso di apportare un'importante modifica. "Il mio maestro è molto perplesso, perché io sto meditando una decisione difficile: ho scelto di coltivare una pianta nel mio giardino". Ingenuamente, io stesso mi chiedevo, e chiedevo ad Emma, cosa ci fosse di strano; Lyu, con una semplicità disarmante e una divertita naturalezza rispose con una verità (in seguito, avrei appurato esser tale) che andava oltre le nostre conoscenze consapevoli: "I giardini Zen sono formati solo da sabbia e sassi!".
"È una scelta difficile", aveva commentato il maestro, di cui Emma aveva riportato le parole rivolte a Lyu: "Il giardino dev' essere in equilibrio, come la nostra vita. Esso rappresenta il nostro universo, e il modo in cui operiamo in esso rappresenta il modo con cui ci rapportiamo all'universo, a ciò che è altro da sé. Il giardino è fatto di elementi mutevoli ed elementi immutabili, che devono essere in equilibrio tra loro, e possono esserlo solo se sono in equilibrio nel nostro cuore. Se decidi di inserire un elemento mutevole come una pianta viva, dovrai capire che l'equilibrio sarà raggiunto se donerai fermo radicamento a quell'elemento vivo e mutevole, e se darai movimento a ciò che è altrimenti immobile e privo di vita come i sassi e la sabbia". Mi ritrovavo sbigottito a pensare che quanto detto da Emma fosse una meravigliosa allegoria di un rapporto equilibrato fra anima e corpo, straordinaria perché esposta da una donna priva di conoscenze sia in ambito di giardini Zen, che di Buddhismo in generale.

Il maestro avrebbe accettato il cambiamento. La visualizzazione vissuta da Emma esprimeva metaforicamente la sua necessità di cambiare qualcosa nella sua vita. La donna poteva finalmente rendersi conto di aver mantenuto per troppo tempo immobili ed immutabili (come il giardino Zen) il suo corpo, la sua vita: si era limitata ad osservarli passivamente; ora era tempo di apportare un elemento di vitalità.
Ed effettivamente Emma, da quel momento, rivoluzionò la sua vita, arricchendola di tutti quegli elementi di energia e gioia a cui prima non le era stato possibile accedere.

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