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Il "bambino restituito": il doloroso caso delle adozioni fallite

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Il "bambino restituito": il doloroso caso delle adozioni fallite

L'articolo "Il "bambino restituito": il doloroso caso delle adozioni fallite" parla di:

  • Fattori scatenanti della restituzione
  • Il rispetto del patto adottivo
  • Il fallimento del patto adottivo
Psico-Pratika:
Numero 208 Anno 2024

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Articolo: 'Il "bambino restituito": il doloroso caso delle adozioni fallite'

A cura di: Rebecca Farsi
    INDICE: Il "bambino restituito": il doloroso caso delle adozioni fallite
  • Introduzione
  • Analisi di una restituzione: i possibili fattori scatenanti
  • Le sorti del patto adottivo
  • Il non lieto fine che parte dall'inizio
  • Il fallimento come tradimento
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
Introduzione

Parlare di "fallimento" dell'adozione evoca vissuti non in linea con la motivazione, solida e consapevole, da cui sono mosse le coppie che scelgono di intraprendere un percorso genitoriale spesso complicato e sofferto. È infatti soltanto al termine di un complesso cammino - umano, emotivo, burocratico - che la coppia candidata riesce ad ottenere l'affidamento di un bambino, realizzando definitivamente l'obiettivo di dar vita, insieme a lui, ad un nuova famiglia.

All'inizio tutto sembra facile.
L'arrivo del figlio crea un sostanziale allentamento della tensione all'interno della coppia. Le statistiche lo confermano. Ma questo dato, pur incoraggiante, non consente di fugare possibili ombre sulla costruzione di un legame in fondo colmo di insidie e criticità, mai adeguatamente previste.
All'improvviso tutto può cambiare, e al progetto di costruzione del nucleo familiare si sostituisce un deprimente groviglio di conflitti. Un contesto teso e indisponibile in cui le incomprensioni diventano l'unico mezzo di comunicazione, gli scontri aumentano fino a risultare insostenibili, e quelle difficoltà che all'inizio venivano considerate superabili si trasformano in un ostacolo relazionale di fronte al quale "ci si arrende".

Alcuni genitori decidono che, in fondo, non ne vale la pena. Quel figlio arrivato da chissà dove ha deluso le loro aspettative, creando una quantità di problemi non preventivata, che non si sentono in grado di gestire.
"Forse era troppo presto, forse non siamo i genitori adatti... Ce l'abbiamo messa tutta, ma questo bambino è davvero ingestibile. Non è più possibile proseguire la convivenza..."; sono queste le giustificazioni più frequentemente fornite dalle coppie che decidono di interrompere un'adozione.
Ma alla base di una resa per certi aspetti opportunistica, emerge più che altro l'impossibilità di accogliere un elemento estraneo all'interno della famiglia, al fine di preservare il più possibile l'identità dei confini generazionali.
Non solo: la restituzione può risultare l'unico modo per salvaguardare gli equilibri di coppia, la cui tutela torna dominante rispetto al tanto vagheggiato, ma ormai non più investito, progetto genitoriale.

E il bambino?
Una restituzione adottiva determina la cesura definitiva di un'unione in fieri, l'aborto di un legame cui si associa il reinserimento all'interno dell'ente affidatario, dove inizierà per lui la nuova attesa di una famiglia disposta ad accoglierlo.

Analisi di una restituzione: i possibili fattori scatenanti
Il bambino restituito: il doloroso caso delle adozioni fallite

Il fallimento di un'adozione non può essere imbrigliato all'interno di pastoie statistiche. Sarebbe riduttivo e poco rispettoso, in un ambito che descrive rapporti affettivi tra esseri umani. Esistono tuttavia una serie di fattori "di rischio" ritenuti in grado di agevolarne il verificarsi, procurando una vulnerabilità nei rapporti e nelle dinamiche relazionali (Salvaggio, 2013). Tra questi:

  • Motivazione insufficiente. I coniugi mostrano disparità di motivazione nel progetto adottivo (nella maggior parte dei casi si riscontra un maggiore convincimento della donna), e questo può contribuire a creare conflitti nella gestione della cogenitorialità e della togheterness, oltre che complicazioni nella gestione dei rispettivi ruoli educativi (Palacios et al. 2005; 2015).
  • Scarsa preparazione della coppia. Nel percorrere il complicato circuito adottivo i genitori devono lasciarsi guidare dalla competenza di professionisti esperti, grazie ai quali potranno conoscere ogni aspetto della decisione che si apprestano a maturare, imparando a gestirne criticità e lati stressogeni. La preparazione è fondamentale. Alcune legislazioni, ad esempio quella spagnola, prevedono per la coppia l'obbligo di frequentare corsi di preparazione all'adozione; anche in Italia, per quanto soltanto a livello di legislazione locale, ci si sta muovendo in questa direzione (Andolfi, Chistolini, D'Andrea, 2010). La genitorialità è un valore che non può essere insegnato. Ma possono esserlo i numerosi obblighi che fanno carico all'impegno adottivo, e che potranno essere assolti soltanto se gli aspiranti genitori ne verranno lealmente messi al corrente.
  • Predominanza di motivazioni di tipo umanitario - tipica delle adozioni internazionali - in base alle quali l'adozione non viene dettata da un autentico desiderio di genitorialità, ma da un progetto idealistico di accudimento. Prendendosi cura di un bambino "sfortunato", i genitori cercano di appagare una pulsione filantropica - sfumata di un inconscio narcisismo - che da una parte mette a tacere i vissuti superegoici persecutori (sentirsi in colpa verso i più deboli) e dall'altra consente di nutrire un altruismo esteriore, volto ad esaltare la propria immagine sociale.
  • Mancanza di identità genitoriale, spesso provocata dal mancato svincolo rispetto alla famiglia d'origine, che ha reso impossibile lo sviluppo delle risorse identitarie necessarie alla formazione di una genitorialità consapevole. Sentendosi perennemente invischiati in uno status di figlio, i genitori adottivi non fanno che replicare le emozioni che hanno caratterizzato il proprio contesto infantile, arrivando a sviluppare vissuti confusivi, polisemici, fuorvianti, talvolta persino competitivi, con quelli del bambino adottato, da cui l'impossibilità di costruire una dimensione genitoriale solida e adeguata al contesto.
  • Inadeguata dimensione relazionale. In una coppia in cui vige uno stile comunicativo conflittuale, la presenza del bambino può contribuire ad amplificare i motivi di scontro, trasformandosi da elemento coesivo in un fattore lesivo degli equilibri di coppia.
  • Mancata rielaborazione del lutto generativo. Non dimentichiamo che l'evento adottivo non costituisce quasi mai un progetto ab origine, mostrandosi piuttosto il ripiego ad una situazione di impossibilità di procreazione biologica. E malauguratamente molti genitori si approcciano al progetto adottivo con la convinzione che, riempire il vuoto affettivo provocato dall'assenza di un figlio naturale, possa rivelarsi il mezzo risolutivo al dolore. In questo caso l'individualità del bambino, basata sulle sue esigenze e sulle sue esperienze pregresse, viene penalizzata da un vissuto narcisistico che lo rende il mero sostituto di un figlio mai nato, il destinatario di un copione già deciso che deve limitarsi ad interpretare.
  • Anzianità della coppia. è probabile che un'età più matura si accompagni ad una minor quantità di risorse genitoriali - in termini di empatia, riflessività, sintonizzazione affettiva, accudimento - da offrire al bambino; inoltre, le coppie datate sono più propense a nutrire una sorta di immunizzazione verso il figlio, inconsciamente reputato come un corpo estraneo inseritosi "indebitamente" all'interno di confini relazionali fino a quel momento inviolati.
  • Un elevato livello di istruzione da parte dei genitori, cui fa seguito un innalzamento della aspettative nei riguardi del bambino.
  • Un carico lavorativo eccessivo, che spinge i genitori a trascorrere buona parte del tempo lontano da casa, rendendo meno possibile il consolidarsi di una relazione empatica e accogliente con il figlio.
  • La presenza di figli biologici. Nel confronto col fratello, il figlio adottivo può percepire lo svantaggio della propria estraneità e sentirsi per questo in eterno difetto; dal canto suo il figlio biologico, soprattutto ove l'evento adottivo sia successivo alla sua nascita, può sentirsi squalificato dall'ulteriore progetto generativo posto in essere dai genitori. Oltretutto non certo casualmente. La ferita narcisistica è inevitabile, e per certi aspetti ovvia: nella maggior parte dei casi il bambino crede di aver deluso così tanto le aspettative dei genitori da spingerli ad effettuare un nuovo tentativo di procreazione (Galli, 2001).
  • Violazione delle aspettative, intesa come eccessiva differenza tra il modello del bambino desiderato dai genitori e quello adottato (Lutz, 2019), da cui il consolidarsi di una discrepanza incolmabile tra il bambino nella mente e quello reale.
  • Adozione internazionale. Lo sradicamento da una patria lontana viene spesso interpretato come un atto di aggressività, un attacco deprivante che amplifica lo stato di estraneità tra i membri del legame, incrementando le rispettive distanze e incapacità assimilative (Bal Filoramo, 2009).
  • La negazione e il silenzio sulle origini. Può mostrarsi un notevole fattore di rischio, poiché contribuisce ad associare l'estraneità biologica ad un elemento stigmatizzante, quasi inaccettabile, in grado di generare nel bambino vissuti di vergogna e isolamento;
  • Adozione di più fratelli. È possibile che la fratria risulti un ostacolo per l'integrazione nel nucleo familiare, soprattutto ove contribuisca a creare una sorta di "fantasma" della famiglia biologica, rendendola una presenza persecutoria in grado di disincentivare la costruzione del nuovo legame affettivo;
  • Età di ingresso in famiglia e "late adoption". Sebbene non sia l'unico fattore di rischio, l'età di inserimento nel nucleo familiare - che porta con sé tutta l'esperienza pregressa vissuta dal bambino - sembra rivestire un ruolo cruciale sul buon esito dell'adozione. In particolare risulta che ad età più avanzate di inserimento nel nucleo familiare siano correlati maggiori rischi di restituzione (Vessella, p. 2).
    Secondo una ricerca condotta negli USA da parte di Coakley e Berrick (2008), un'età di adozione più elevata - in genere superiore a 6-7 anni - costituisce un fattore di rischio per l'adattamento, soprattutto a causa di un vissuto abbandonico il cui contenuto, probabilmente traumatico, si mostra ostativo nella costruzione di relazioni sicure. Secondo le ricerche di Palacios (2015), invece, già un'età superiore a 2 anni costituirebbe un fattore potenziale di rischio.
  • Genere. Il genere femminile fa rilevare un fattore di rischio leggermente superiore, evidenziando un'incidenza del 55% contro il 45% di quella maschile, concentrata soprattutto in una fascia di età che va dai 12 ai 14 anni (Vessella, 2008).
  • Stadio evolutivo. La fase maggiormente a rischio restituzione viene identificata, per entrambi i generi, in quella della preadolescenza (9-11 anni circa) periodo nel quale risulta più difficile gestire le dinamiche conflittuali e il quantum pulsionale che, soprattutto in casi di adozione, può facilmente assumere connotati anti relazionali, talvolta aggressivi; è inoltre in questa fase che la necessità di scoprire le proprie origini si amplifica in maniera esponenziale, al fine di completare un processo di costruzione identitaria che, per proiettarsi nel futuro, parte necessariamente dalla conoscenza empatica e mentalizzata del proprio passato (Vessella, 2008).
  • Abbandoni ripetuti. Più si prolungano i tempi di abbandono e deprivazione affettiva, più diventa difficile demolire un vissuto di disistima e disillusione riguardo il Sé, il mondo e il futuro. Spesso i genitori si trovano davanti un "piccolo adulto" indisponibile e disilluso, desertificato nel proprio nucleo affettivo, e per questo rassegnato ad interpretare difensivamente la figura di un "antieroe" - cinico e indifferente - che allontana gli stessi oggetti affettivi dai quali teme di essere rifiutato.
  • Presenza di special needs. Dsturbi psichici, bambini affetti da menomazioni fisiche o ritardi mentali, ma anche soggetti precedentemente inseriti in un contesto effettivamente complicato (genitori alcolizzati, tossicodipendenti), circuiti di maltrattamenti), possono esasperare il clima familiare fino a rendere impossibile la prosecuzione o la stessa costruzione del rapporto.
Le sorti del patto adottivo

Affinché la famiglia adottiva rappresenti un'occasione di crescita e rinascita per tutti i suoi membri, l'accettazione deve risultare piena ed autentica. Le parti coinvolte devono legittimare, in senso reciproco, le rispettive diversità, e accoglierle in un tessuto orientato all'inclusione, frutto di un riconoscimento consapevole e condiviso. L'aspetto della legittimazione, in particolare, si mostra indispensabile per dissipare l'effetto potenzialmente distruttivo della "non appartenenza", che si staglia sui rapporti familiari come una sorta di minaccia.
Per riuscire in così delicati obiettivi è necessario il rispetto di un patto. Un accordo, per quanto implicito, che veda l'impegno unanime verso un obiettivo comune. La costruzione di un legame affettivo che genera, consolida e nutre le relazioni, consentendo la nascita di un nucleo familiare.
"La costruzione del patto è tutt'altro che scontata. Il suo esito non costituisce semplicemente la saturazione dei rispettivi bisogni, vale a dire che il suo risultato non è riducibile alla mera sottrazione dei deficit e della somma delle risorse delle parti. Il patto, per poter essere costruttivo, deve assumere le rispettive mancanze e trasformarle in un progetto-impegno generativo" (Cigoli, 2000, p. 232).
Un'evoluzione degenerativa del patto è più frequente di quanto si vorrebbe. Talvolta, ad evitare il peggio non bastano neppure accorte preparazioni pre e post adottive, supporti psicologici, impegno empatico da parte dei genitori, l'apparente disponibilità del figlio (Scabini, Cigoli, 2000). Di fatto il rapporto non si crea: l'affetto naufraga prima ancora di prendere vita, e il patto degenera in una delle seguenti strutture patologiche:

  • Patto imperfetto. È un patto in cui non c'è reciprocità. Le richieste poste da uno dei membri non vengono tenute in considerazione dall'altro, il cui interesse è esclusivamente volto alla tutela di investimenti narcisistici. Ad esempio, la famiglia può imporre al bambino di adattarsi al nuovo contesto esistenziale dimenticando le esperienze - emotive, sociali e culturali - maturate in precedenza; allo stesso modo il bambino può proiettare sui genitori i propri vissuti di abbandono, mostrandosi restio ad ogni loro tentativo di approccio affettivo-relazionale.
  • Patto di assimilazione reciproca. Il disconoscimento delle rispettive differenze è finalizzato a sostituire l'estraneità con un progetto biologico millantato, finalizzato a celare l'adozione dietro vissuti di illusoria appartenenza. Ad esempio, i genitori possono sforzarsi di trovare nel figlio somiglianze fisiche o caratteriali al fine di costruire un'illusoria assimilazione con un rapporto generativo biologico. In questo caso la coppia genitoriale non è ancora pronta ad accogliere, nel proprio tessuto di storia familiare, un elemento di diversa provenienza. Nel timore che scoprirsi e riconoscersi estranei farebbe inevitabilmente naufragare la costruzione del rapporto affettivo.
  • Patto di negazione. In questo caso l'adozione, pur riconosciuta, si trasforma in un evento non nominabile, un segreto di cui tutti sanno ma di cui nessuno può parlare. Questo silenzio difensivo compromette il riconoscimento e la gestione delle difficoltà, rendendole di fatto insormontabili. Perché se il dolore non diventa parola, se il conflitto non si trasforma in dialogo generativo, le difficoltà rimarranno allo stato di nuclei siderati, di agiti, di silenzi intrappolanti e infine distruttivi, proprio perché negati.
  • Patto impossibile. Si tratta di un totale fallimento relazionale, in cui le rispettive posizioni si trovano su piani così distanti che trovare un punto di incontro è impensabile. I genitori temono l'estraneità del figlio, che controllano su di lui mediante un approccio proiettivo colpevolizzante; il figlio, di rimando, colpevolizza i genitori per averlo sottratto al proprio ambiente d'origine, rendendolo il mero strumento di gratificazioni narcisistiche. Con queste prospettive l'incontro è impossibile e la relazione probabilmente destinata al fallimento.
Il non lieto fine che parte dall'inizio

Il dolore del fallimento adottivo si rileva nell'impossibilità - per i genitori e per il figlio - di rispecchiarsi reciprocamente e costruire nell'incontro una nuova storia condivisa (Lombardi, 2003).

Come può accadere?
Uno dei compiti più complessi per una coppia adottante è creare una giusta distanza tra senso di appartenenza coesiva e autonomia identitaria del figlio: ciò significa riconoscere il suo diritto all'inserimento in un nuovo contesto, senza per questo dover rinunciare alle esperienze e alle trame affettive pregresse che costituiscono una parte imprescindibile del Sé.

Trovare un equilibrio non è facile.
Il rischio è che a prevalere sia l'intento difensivo: quello del bambino che vuol seppellire il vissuto traumatico dell'abbandono, e quello dei genitori, intenti a combattere la ferita narcisistica della mancata procreazione. Ma questo non può tradursi nel diniego distruttivo degli eventi che hanno condotto alla costruzione del nucleo familiare, delegittimandone ruolo, funzione e identità. Il silenzio, l'aggressività, la proiezione massiva sono tutti mezzi di difesa finalizzati a mettersi al riparo da vissuti abbandonici, il cui unico effetto è quello di far naufragare il tentativo relazionale contro un conflitto non elaborabile. Ma è proprio a questo punto che la restituzione del figlio si mostra l'unica alternativa possibile. Determinando un fallimento del rapporto che prima di tutto è un fallimento del Sé.

Come impedirlo?
Non esiste un vero e proprio vademecum, una tavola delle leggi in grado di mettere al riparo da adozioni non riuscite. Ma certamente i genitori, in qualità di adulti consapevoli e più preparati alla costruzione di un legame, devono "riparare" tutte quelle dimensioni della genitorialità che il bambino, ostacolato da un vissuto difficile e più volte messo alla prova, può danneggiare più o meno volontariamente. Il genitore adottivo deve soprattutto costruire ciò che il figlio, con atteggiamenti di sfida e di rifiuto, può cercare di distruggere, sottraendosi ai suoi tentativi di avvicinamento. Deve curare le sue ferite abbandoniche con atteggiamenti stabili, empatici e contenitivi; ma soprattutto deve trasmettergli la prospettiva di un rapporto solido e accogliente, che non verrà compromesso da nessuna difficoltà. Stando soprattutto attento ad evitare i seguenti ostacoli:

  • La diversità non può essere mortificata da una negazione che ne amplifichi la potenzialità ostruttiva. Al contrario, deve essere trattata come una fonte di arricchimento, un valore aggiunto in grado di costruire una genitorialità responsabile, scevra di investimenti narcisistici che potrebbero contaminare l'autenticità del rapporto attraverso condotte rifiutanti, evitanti o compiacenti.
    "Le condizioni in cui la scelta adottiva viene costruita esplicitamente non sul desiderio di genitorialità, quanto piuttosto sul progetto di accoglienza e apertura al diverso - rimarcando una negazione delle differenze - sono proprio quelle che, con l'andar del tempo, mostrano condizioni di disruption più intense, ma sono proprio queste differenze che diventano nel tempo la causa dei problemi connessi alla relazione adottiva stessa" (Lombardi, 2003).
  • Parlare dell'adozione al bambino. Verità non spiegate rischiano di divenire nuclei sideranti e non narrabili che aumentano la lontananza tra i membri del legame, creando identità polarizzate, diffidenti, costruite sulle ceneri di rapporti dolorosamente interrotti e non pronti a rinnovarsi. Nel rispetto di un adeguato timing che tenga conto delle esigenze affettive e delle caratteristiche individuali, la verità circa la reale provenienza del bambino dovrà essere lealmente affrontata, e non nascosta come un evento di cui provare vergogna.
  • Niente ripensamenti. Alla base del progetto adottivo sarebbe da irresponsabili porre motivazioni poco consistenti, non durature e comunque inattendibili, pronte ad arrendersi al primo ostacolo: "Chi decide di adottare un bambino, acquista coscienza dell'idea di adottarlo, si dà da fare e finalmente arriva il momento in cui il bambino deve materializzarsi. Sfortunatamente per i genitori adottivi, può capitare che al momento in cui hanno trovato il bambino non siano più così sicuri di volerne uno" (Winnicott, 1951, p. 133). Di fronte ad un'impossibilità generativa, il percorso di adozione non è un'alternativa obbligata né obbligatoria, e la scelta di intraprenderlo deve essere presa con consapevolezza e fermezza di intenti. In caso contrario, è preferibile optare per altre soluzioni. Nell'interesse di tutti i soggetti coinvolti, e soprattutto del bambino, che ha già pagato il prezzo dell'irresponsabilità degli adulti.
  • No al narcisismo. Il genitore non può compensare nel figlio sofferenze e fallimenti personali, impedendogli di fatto la possibilità di raggiungere un'individualità autonoma e differenziata dalla propria; egli deve chiudere i conti con il bambino ferito che è stato, per trasformarlo in un adulto consapevolmente e realmente in grado di pendersi cura di qualcun altro: "Molti motivi poco soddisfacenti possono nascondersi dietro l'adozione di un bambino. Una donna che non si è mai sentita amata e che cerca l'amore e la compagnia di un bambino, non desidera vederlo crescere, farsi degli amici e sposarsi. La donna che cerca una bambina nella quale gratificare i progetti in cui lei è fallita verrà presto o tardi delusa, e si volgerà contro di lei" (Bowlby, 1951, p. 163).
  • Superamento del lutto per il figlio non nato. I genitori si arrendono quando il loro desiderio non è quello di crescere un figlio, bensì di crescere, nel bambino adottato, quello stesso figlio che non sono riusciti a generare, ma che ancora vive nella loro mente come un fantasma persecutorio. Con queste prospettive narcisistiche il bambino diventa uno strumento compensativo di dolori arcaici e non risolti, ma in realtà privo di ogni riconoscimento individualistico; il dolore per non aver potuto dar luogo ad una procreazione biologica deve essere realisticamente sostituito da un progetto che, di per sé, non rappresenta il sostituto di nessun altro percorso genitoriale, ma una scelta consapevole e assertiva che necessita di risorse genitoriali specifiche, non certo residuali.
  • Mettersi in gioco, essere disposti anche all'incertezza, alla sorpresa, all'imprevisto. Nell'accettare di accogliere una creatura proveniente da un ambiente culturale ed esperienziale molto diverso dal proprio, i genitori devono essere pronti a tutto. Soprattutto devono liberarsi di quella genitorialità rigida e pretenziosa che costringe ad adattamenti irrealistici, coltivati dalla coppia per la gratificazione del Sé. Ancora una volta, è l'imperare del narcisismo che spinge ad inserire il bambino in un progetto genitoriale rigido e inflessibile, un modello previsto e preventivato che non ammette discrasie.
    "Non esiste sfortunatamente nulla che possa rassomigliare ad un'adozione garantita. Nessun bambino può essere certificato da un ente. Quindi, per quanto profonda e specifica sia la preparazione all'evento, i genitori devono mostrarsi pronti soprattutto ad accettare il bambino, a prescindere che lo stesso risponda alle loro aspettative e desideri, e preparandosi a gestire ogni tipo di imprevisto" (Hutchinson, 1943, p. 127).
    Il narcisismo apre la porte ad una sterilità mentale che, non meno di quella biologica, impedisce ad un genitore di raggiungere una piena riuscita del proprio ruolo e lo condanna ad uno stato di accudimento illusorio che genera nel bambino vissuti di profonda disillusione. Il figlio adottato non fa parte di un piano prestabilito. Non è la tessera di un mosaico o di un puzzle da completare, ma un individuo vero e proprio, con tutto ciò che di instabile, imprevedibile, mutevole che questa condizione può comportare. È necessario non dimenticarlo.
Il fallimento come tradimento

A rendere impossibile l'adozione, nella maggior parte dei casi, è la perdita di motivazione nel portare avanti il progetto generativo alla stessa connesso. E se l'adozione è un patto, un'adozione fallita rappresenta il fallimento di un patto. La mancanza di fedeltà ad una promessa. Un atto di slealtà, nel quale gli adulti si sono lasciati sopraffare da esigenze narcisistiche, preferendole ad un intento affettivo nei confronti del bambino e delle sue esigenze specifiche, che, in ogni progetto generativo degno di questo nome, dovrebbe costituire l'indiscutibile priorità (Cancrini, 2020).

Una crisi post-adottiva è una sconfitta di gruppo, ma lo scotto più alto viene pagato dal bambino. Sarà facile per lui, in seguito all'ennesimo rifiuto, consolidare vissuti di mortificazione e autosqualifica, che lo spingeranno a credere di essere destinato ad un eterno abbandono affettivo, perché in fondo se lo merita: ciò in linea con le logiche di un'autocolpevolizzazione necessaria a fornire spiegazioni plausibili laddove non è possibile trovarne di più leali.
Il bambino restituito si sente per l'ennesima volta rifiutato, tradito da un affetto genitoriale che non ha saputo proteggerlo, consegnandolo ad una solitudine dalla quale teme persino di allontanarsi, convinto che ogni nuova attesa, ogni nuovo progetto, sarà seguito dal dolore di un fallimento. È il c.d. terrore della speranza, ( Gazzillo, 2019) tipico di tutti i soggetti sottoposti a ripetuti abbandoni affettivi.

I figli adottati ritengono che nessuno sia in grado di amarli. Ma soprattutto, credono di non appartenere realmente a nessuno. Agli adulti il compito di smentirli, nel rispetto di un progetto genitoriale in cui l'affetto non viene concesso a chi se lo merita o a chi obbedisce di più, ma viene donato incondizionatamente, per dar vita a quel ciclo di continuità lineare in cui il dare non presuppone il restituire, e qualsiasi vuoto, persino il più doloroso, può essere colmato da contenuti salvifici.

Bibliografia
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  • Palacios, J. (2010), "Adozioni che falliscono", in Vadilonga, F., Curare l'adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, pp. 255-273.
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  • Winnicott D. W. (1951), "Il bambino deprivato", trad.it., Milano Raffaello Cortina
  • www.commissioneadozioni.it/media/bagpqapy/crisi_percorsi_adottivi_italia.pdf (commissioneadozioni.it)
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