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Abbandono e separazione materna precoce: dimensione affettiva e fisiologica a confrontoL'articolo "Abbandono e separazione materna precoce: dimensione affettiva e fisiologica a confronto" parla di:
Articolo: 'Abbandono e separazione materna precoce: dimensione affettiva e fisiologica a confronto'A cura di: Rebecca Farsi
IntroduzioneGli effetti dell'abbandono materno sono stati evidenziati da più parti come eventi disintegranti della vita infantile, capaci di rendere patologico il percorso evolutivo e di comprometterne la funzionalità. Tra gli studi più accreditati effettuati in materia troviamo quelli di Spitz, che hanno avuto il merito di sottolineare l'importanza della funzionalità della diade, mettendo in risalto al contempo gli effetti devastanti dovuti ad una precoce separazione materna; non da ultimo, dimostrando che tali effetti possono avere ripercussione non solo sulla dimensione cognitiva ed emotiva del bambino, ma altresì in quella fisiologica, organica e immunitaria, Spitz è riuscito a sconfessare il presunto dualismo tra psiche e soma, aprendo gli orizzonti della psicologia e della scienza verso una l'ipotesi di una profonda interconnessione e influenza reciproca tra gli stessi. L'ospitalismo e i suoi effettiGli studi di Spitz e Wolf si collocano tra il 1945 e il 1946, anno durante il quale gli studiosi misero a confronto due diversi gruppi di bambini istituzionalizzati: il primo gruppo (in numero di 220) era costituito da figli di madri carcerate, ospitati all'interno di un asilo annesso alla struttura carceraria, e quindi messi in possibilità di accedere quotidianamente alle cure e alla presenza materna; il secondo gruppo (in numero di 91) era invece formato da bambini completamente orfani, cresciuti dall'organico infermieristico di un brefotrofio londinese senza aver mai sperimentato un contatto diretto con la figura materna. In entrambi i casi i bambini venivano nutriti e curati adeguatamente, ma la provenienza delle cure era diversa: se nel primo caso esse erano fornite direttamente dalla madre, nel secondo gli orfanelli non avevano contatti affettivi che con le infermiere del reparto, per quanto si trattasse di soggetti appositamente formati per l'assistenza ai lattanti. Esse comparivano soltanto al momento del pasto, restando assenti per il resto della giornata, mentre i bambini della nursery potevano godere della presenza della madre per buona parte del giorno. Differenze si riscontravano anche nell'arredamento dei due luoghi: se la nursery disponeva di lettini colorati e poteva contare sulla presenza di giocattoli, il brefotrofio non mostrava nessun elemento di distrazione, perlomeno nelle prime settimane di detenzione. Ma anche quando in seguito ai bambini vennero consegnati dei giocattoli e dei pupazzi per giocare, essi non mostrarono capacità manipolative ed esplorative sufficienti al compito ludico, manifestando invece, tra gli 8 e i 12 mesi, stati di ansietà nei confronti degli estranei e dei giochi stessi. Inoltre nella nursery i bambini potevano vedere le madri affaccendarsi in cucina e gli altri bambini attraversare i corridoi, avevano libero accesso alle finestre e potevano spostarsi dalle propria stanza sperimentando parziali tipologie di esplorazione ambientale, mentre nel brefotrofio gli infanti erano tenuti a letto, con lenzuola appese alle pareti, cosicché era loro impedita la vista all'esterno. Questo li costringeva dunque in una condizione di pseudoisolamento che mal si conciliava con la fame di stimoli esplorativi e sperimentali tipica di questa fase evolutiva. Le conseguenze di tali differenze non tardarono a mostrarsi, dato come il quadro clinico degli orfanelli si presentò in poche settimane piuttosto preoccupante: molti di loro non crescevano, avevano un basso livello ponderale, mostravano deficit cognitivi e motori di varia natura, ritardi intellettivi, movimenti e condotte inappropriate. Ma si verificavano anche inespressività emotiva del volto, spasmi muscolari, crisi di pianto e notevoli deficit a livello immunitario. Nel primo anno morirono 27 dei 91 bambini ospitati nel brefotrofio, molti per un'epidemia di morbillo, mentre nel secondo anno ne morirono altri 7 per fattori legati ad una cattiva costituzione fisica; molti bambini presentavano infatti quadri di crescita davvero inadeguati per l'età cronologica: basti pensare che a due anni solo 3 di loro raggiungevano lo standard di altezza pari ad 85 cm e di peso pari a 12 Kg. Gli altri erano sottosviluppati fino ad un limite del 45% per il peso e del 15% per l'altezza. Bambini di sei mesi privati dell'affetto materno presentavano crisi di pianto e atteggiamenti di disperazione. Dopo tre mesi il pianto cessava e comparivano posture rigide e immobilità nel lettino, seguite da insonnia, perdita di peso, deficit cognitivi e impossibilità di relazione, atteggiamenti di freezing, stereotipie di vario genere. I bambini, osservati per 400 ore con frequenza settimanale, presentavano per la maggior parte questi sintomi, confermando l'ipotesi che si trattasse di una vera e proprie sindrome. Come era possibile tutto ciò? Spitz argomenta la sua scoperta facendo leva sull'importanza della presenza materna nei primi mesi di vita del bambino. La madre deve ricoprire non solo il ruolo di accuditrice, ma deve svolgere altresì e soprattutto una funzione gratificante, in grado di fornire affetto, calore e sostegno nelle varie fasi di crescita. I sorrisi, le carezze, il tono di voce, uniti ad una corretta e continuativa esperienza tattile, consentono al bambino di raggiungere un forte legame affettivo con la madre, e di creare all'interno del proprio Sé quegli stimoli positivi necessari ad un sano e corretto sviluppo organico ed emotivo. Il Sé formato della madre, dunque, consente la formazione di quello del figlio, che nel suo si rispecchia, si scopre, si identifica e in seguito si differenzia, consapevole di un'unitarietà e di un'indipendenza che non lo sconforta, ma al contrario lo stimola, lo rafforza. Inoltre la madre rappresenta per il bambino un vero e proprio mondo simbolico nel quale rispecchiare e comprendere le proprie emozioni, che altrimenti avvertirebbe come pulsioni incomprensibili, una forza senza simbolo e senza nome. Siamo nella fase evolutiva che Spitz (1958) chiama dell'oggetto precursore, durante la quale il bambino, non percependo ancora una netta differenziazione tra il proprio Sé corporeo e quello materno, si serve della costante presenza oggettuale della madre per reagire in maniera adattiva ai suoi stessi stimoli corporei, e nel frattempo per imparare ad apprenderli, a distinguerli, ad orientarli nelle giuste direzioni. L'oggetto materno non si è ancora formato nella sua integrità autonoma, ma questo legame diadico simbiotico è la fase evolutiva necessaria al compimento di un processo evolutivo in cui la differenziazione materna possa avvenire gradualmente, in una modalità di ritmi responsivi e costanti guidati dalla madre stessa: nella finalità precipua di farli apparire al bambino meno traumatici, meno incomprensibili e angosciosi. Ma se questa simbiosi evolutiva viene interrotta precocemente l'oggetto materno non ha la possibilità di essere interiorizzato in maniera solida e costante, con la conseguenza che i cambiamenti provocati dal processo di differenziazione dalla madre verranno vissuti dal bambino con angoscia disintegrante, in grado di scatenare reazioni difensive estreme, non soltanto sotto la dimensione emotiva, ma anche in quella strettamente organica. Gli studi di Spitz e Wolf hanno dimostrato come lo stress provocato dalla mancanza dell'oggetto primario contribuisce a creare nel bambino una
serie di sintomi fisici ed emotivi disfunzionali che ne danneggiano l'integrità psico-fisica: il piccolo diventa apatico e indifferente,
perde peso, si ammala facilmente perché il suo corpo non produce gli ormoni necessari alla crescita (soprattutto ormone GH); non riesce a
compiere i normali movimenti della sua età, non raggiunge un adeguato sviluppo psicomotorio, presenta carenze immunitarie che lo conducono
allo sviluppo di patologie precoci, e spesso alla morte entro pochi anni. Gli studi di Spitz vennero in seguito confermati da Harlow (1958), che col suo esperimento sui cuccioli rhesus riuscì a dimostrare l'innatismo
delle tendenze sociali umane, e il bisogno del calore materno che nel bambino si mostra addirittura superiore a quello del soddisfacimento di stimoli
fisiologici come la fame: la madre di stoffa che emanava morbidezza e calore, era infatti preferita dai cuccioli di scimmia per quanto il biberon si
trovasse nella mamma manichino costruita con fil di ferro, che veniva raggiunta il tempo necessario alla poppata per poi venir subito abbandonata, in
cerca dell'altra. Le ricadute fisiologico-immunitarie dell'assenza o della precoce separazione dall'oggetto maternoLo stress sperimentato in una fase dell'esistenza in cui il legame diadico si rivela indissolubile e indispensabile, manifesta gravi conseguenze
anche sotto il punto di vista fisiologico. Si è visto come la psicosomatica abbia reso possibile la recisione del dualismo tra mente e corpo
in favore di un'interazione sistemica degli stessi, e a contempo la psiconeuroimmunologia ha permesso di affermare che tali conseguenze stressanti
riverberano effetti disintegranti anche sotto il punto di vista immunitario, e dunque di resistenza alle malattie. I bambini che non possono
verbalizzare il proprio dolore per l'assenza della madre pongono in essere condotte disfunzionali che si esprimono mediante disturbi fisici di varia
natura, utilizzano dunque il corpo per rivelare una pulsione frustrata che non hanno potuto rimuovere, non avendola neppure sperimentata. Il danno
immunitario sembra derivare essenzialmente da un eccesso di cortisolo, l'ormone dello stress, che avrebbe un effetto inibitore della risposta ai
mitogeni e un indebolimento dei linfociti T e dei linfociti B. Non sono solo le separazioni prolungate ad avere questo effetto, dato come anche separazioni brevi, sia negli cuccioli di animale sia nei bambini, sono in grado di innalzare livelli basali di cortisolo (Hennessy, 1986). Questi studi sono stati effettuati al fine di considerare più o meno plausibile un'abituazione alla separazione materna, in base alla quale un allontanamento frequente e reiterato dalla madre avrebbe potuto mostrarsi col tempo meno sensibilizzato e più tollerato. Ma i risultati hanno mostrato l'esatto contrario: anziché costituire la base per una risposta modulata ad una nuova separazione, separazioni ripetute sono tollerate ancora meno rispetto alle precedenti, scatenando risposte di stress e cortisolo più elevate (Hennessy, 1986). Sugli umani sono stati rilevati effetti a lungo termine dovuti alla precoce separazione materna: studi epidemiologici hanno evidenziato come la perdita di un genitore in età infantile possa costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di psicopatologie come schizofrenia, psicosi, disturbi di dipendenza da sostanze (Kendler et al., 1992). Nicolson (2004), misurando il cortisolo - 5 giorni per 10 volte al giorno - di 43 uomini che avevano subito la perdita di un genitore prima dei 17 anni, ha riscontrato un livello maggiore in questi ultimi rispetto al gruppo di confronto che possedeva entrambi i genitori. Si tratta di un risultato che ha dimostrato quanto gli effetti di una separazione genitoriale precoce possano riverberarsi anche sul lungo termine, fino all'età adulta. Studi confermati dalle ricerche di Le Shan (1966), che ha testimoniato come soggetti che avevano sofferto in età infantile una perdita affettiva rilevante, quale quella genitoriale, manifestano anche in età adulta minore risposta ai mitogeni, minore attivazione dei linfociti NK e quindi maggiore esposizione alla formazione di tumori. A seguito dello studio longitudinale compiuto da Drury e coll. (2012) su 136 bambini ospitati all'interno di orfanotrofi rumeni, è stato
possibile evidenziare una correlazione tra la quantità trascorsa nell'ambiente deprivato e l'accorciamento precoce dei telomeri, le
parti terminali dei cromosomi che proteggono le cellule dall'invecchiamento. Gli autori della ricerca sottolineano come negli adulti telomeri più
corti siano associati a più alti tassi di malattie cardiovascolari, cancro e compromissione cognitiva. L'importanza dell'esperienza tattile e del rapporto fisico con la madre viene confermato da studi compiuti su bambini nati prematuri, con peso alla nascita pari a 1100 grammi in media, che sono stati allevati su lana di agnello, e hanno mostrato capacità di sviluppo maggiori rispetto ad un gruppo di bambini allevati su lenzuola di cotone (Scott et al., 1983). L'effetto è stato replicato in stati del terzo mondo come lo Zimbabwe, dove l'alto tasso di bambini prematuri, nati al termine di gestazioni difficili e deprivanti, sono stati assicurati alla vita grazie ad un metodo di denominato Kangaroo, ovvero canguro, e consistente nel tenere il bambino a costante contatto con la pelle della madre. Da questo rapporto di vicinanza e calore si generano stimolazioni ormonali e neurologiche in grado di assicurare al bambino migliori e più sicure condizioni di crescita e sviluppo funzionale: neonati venuti al mondo con un peso inferiore a 1500 grammi, grazie al presente metodo, hanno visto la propria sopravvivenza aumentare della metà complessiva (Bergmann e Jurisoo, 1994). L'importanza del tocco materno è stata evidenziata negli anni '90, con la scoperta di un sistema afferente tattile,
denominato CT, che sarebbe in grado di trasmettere in via preferenziale i segnali di contatto epidermico alla corteccia cerebrale, dove viene
attivata l'area corrispondente all'insula, deputata a svolgere un ruolo cruciale nella sperimentazione delle emozioni e nell'elaborazione di dati
interni ed esterni al Sé. Per queste ragioni si pensa che proprio l'insula svolga un ruolo essenziale nella formazione e nell'integrazione
del Sé corporeo (Crucianelli e Filippetti, 2018). Ecco dunque confermato, anche a livello di studi di neuroimaging, come l'assenza materna precoce e una deprivazione affettiva nelle prime fasi della vita possano riverberare i propri infausti effetti a lungo termine, in maniera massiccia e costante e globale, coinvolgendo la totalità degli apparati psico-fisici necessari allo sviluppo del bambino. Bibliografia
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